domenica 31 luglio 2011

Riflessioni su Libia e dintorni - Parte II

Quali sono, dunque, le reali problematicità della cosiddetta Primavera Araba? Rispondere a questa domanda ci riporta ai fatti recenti, in particolare a due aspetti. Innanzitutto, la Tunisia e l’Egitto, dove la nuova fase politica è iniziata quasi senza spargimenti di sangue, sono accomunati dal fatto di avere una lunga tradizione statale, un senso di identità nazionale abbastanza radicato, e un’istituzione, l’esercito (in Marocco è la monarchia), rappresentante e garante di questa unità, che non a caso si è posto alla guida del processo di transizione. Questo non vale per la Libia, la Siria e lo Yemen, creazioni dell’epoca coloniale, in cui le potenze europee hanno riunito tribù e gruppi sociali diversi, da allora in competizione per il controllo delle istituzioni. In questi contesti, la perdita del potere da parte del gruppo al comando è una questione di vita o di morte, dal momento che dal potere passa l’accesso alle scarse risorse del paese. Così si spiegano le violenze interetniche esplose tra le tribù della Cirenaica (i ribelli di Bengasi) e della Tripolitania (i fedelissimi di Gheddafi), tra i diversi gruppi sciiti opposti alla famiglia Assad in Siria (paese oltretutto a maggioranza sunnita), e tra sostenitori ed oppositori del Presidente yemenita Saleh. La spirale di violenze avviata dalla repressione di Saleh e da Assad (e da Gheddafi prima del necessario ma mal organizzato intervento della Nato), mostrano che in Medio Oriente e nei paesi del Golfo si giocherà una partita molto più complicata, di cui non è possibile ipotizzare né determinare la soluzione (casomai qualcuno ipotizzasse davvero un coinvolgimento della Nato al di fuori della Libia).
Un secondo elemento di incertezza circa lo sviluppo della situazione è rappresentato dalla posizione di Israele. Il governo di Tel Aviv è tra i più preoccupati dalle rivolte. Dietro le dichiarazioni di facciata a sostegno della democrazia, Israele sa di avere tutto da perdere da un cambio di governo in Siria, oltretutto dopo la caduta di Mubarak in Egitto e il recente ingresso di Hezbollah nella coalizione di governo libanese. Coi dittatori oggi in difficoltà, Israele ha infatti negoziato negli ultimi 30 anni uno status quo accettabile, grazie ad accordi formali, la pace con l’Egitto, e intese de facto, la non belligeranza con la Siria. L’avvento di nuovi governi rivoluzionari potrebbe rompere questo fragile equilibrio, come anticipato sia dalla decisione dell’esecutivo di transizione egiziano di aprire il Canale di Suez alle navi iraniane, che dalle provocazioni di Assad, che per esercitare pressioni ha permesso a gruppi di rifugiati palestinesi di raggiungere il confine israeliano e di ingaggiare battaglia con le forze di frontiera. Tel Aviv potrebbe dunque muoversi in funzione del mantenimento dello status quo.
Gli Stati Uniti potrebbero svolgere una importante funzione stabilizzatrice. Alla fine di maggio Barack Obama ha illustrato al Congresso le linee guida del la nuova politica americana nella regione. Le sue parole hanno evidenziato l’intelligenza di un Presidente rimasto coerente con il discorso all’Università del Cairo nel 2009 (quello che gli è valso il premio Nobel), quando aveva annunciato una nuova stagione di rapporti col mondo arabo, basata sul basso profilo statunitense e su una maggiore reciprocità. Non a caso, non una bandiera americana è stata finora bruciata nelle piazze arabe in rivolta, mentre molti paesi della Lega Araba hanno aderito alla missione della Nato in Libia. Ciò non toglie, comunque, che stavolta saranno gli stessi paesi arabi ad avere l’ultima parola su quelli che saranno i nuovi assetti regionali.

Carlo Marcotulli 

1 Fonti: CIA – The World Factbook e US Census Bureau – International Data Base

domenica 24 luglio 2011

Riflessioni su Libia e dintorni - Parte I

È difficile trovare un aggettivo più adeguato dello spesso abusato “storico” per definire gli eventi che stanno ridisegnando la geografia politica del mondo arabo. Basti pensare che, nell’età contemporanea, solo nel 1848 e nel 1989 era capitato che un’intera regione fosse attraversata da movimenti rivoluzionari. Ecco perché a quattro mesi dall’inizio dei bombardamenti della Nato in Libia, in cui l’Italia è impegnata attivamente, si avverte l’esigenza di fare un po’ di chiarezza su quanto sta avvenendo a due passi da casa nostra. Questo a fronte di un dibattito politico interno che ha ridotto il tutto ad un problema di invasione delle nostre coste da parte di migliaia di uomini e donne in fuga.
L’articolo non pretende di analizzare tutte le specificità di un processo che coinvolge paesi molto diversi tra loro. L’obiettivo è, semmai, sviluppare qualche riflessione di carattere generale, che permetta di inquadrarne gli aspetti essenziali. In tal senso, il primo elemento da tenere a mente è che l’origine delle rivolte va ricercata, come quasi sempre accade, nell’economia. L’Egitto, La Tunisia, la Siria, lo Yemen (ma anche il Marocco e l’Algeria) hanno una lunga tradizione di governi autoritari e corrotti che, accentrando su di sé e sulla ristretta cerchia dei propri sostenitori le limitate risorse del paese, hanno sempre costretto la maggior parte della popolazione a sopravvivere in condizioni di difficoltà. Il fragile equilibrio si è spezzato alla fine del 2010, quando elementi contingenti, tra cui la distruzione dei raccolti di frumento russi, e strutturali, l’aumento della domanda di beni primari da parte della Cina e dell’India, hanno causato un rialzo dei prezzi dei prodotti di prima necessità, che a quel punto sono divenuti inaccessibili per le popolazioni arabe. Il venditore ambulante tunisino Mohamed Bouazizi, che dandosi fuoco il 17 dicembre 2010 per protestare contro il carovita ha fatto esplodere la scintilla della rivolta in tutto il Mediterraneo meridionale, è l’emblema di questo discorso. In quella situazione di instabilità, l’adozione da parte dei governi colpiti dalle proteste di misure miranti a calmierare i prezzi dei prodotti alimentari, interpretata come un segnale di debolezza, è stata la molla che ha spinto centinaia di migliaia di persone ad invadere le piazze principali di Tunisi, Il Cairo ad altre città.
Qui entra in gioco l’elemento politico, dal momento che, questa è la grande novità, alla testa delle rivolte si sono messe le giovani generazioni arabe. Il 20% della popolazione del Nord Africa e del Medio Oriente ha un’età compresa tra i 15 ed i 24 anni, e la metà degli abitanti di quei paesi ne ha comunque meno di 30. Si tratta in larga parte di giovani diplomati e laureati, con una formazione ed una consapevolezza molto più elevate di quelle dei loro genitori, ma comunque insufficienti per trovare lavoro in patria e all’estero, dove patiscono la maggiore preparazione dei laureati europei, statunitensi, cinesi ed indiani. Questi ragazzi sono dunque scesi in piazza, aggirando la censura e la repressione delle forze di sicurezza utilizzando twitter, facebook e tutti gli strumenti che la tecnologia mette loro a disposizione, e l’effetto è stato dirompente.
Queste ultime considerazioni la dicono lunga circa la superficialità con cui è stato paventato il pericolo di una radicalizzazione in senso religioso delle rivolte. Non a caso, tanto i Fratelli Musulmani quanto i gruppi salafiti sono stati colti di sorpresa dagli eventi, tanto che al loro interno è iniziata una vera e propria resa dei conti, con le componenti più giovani che hanno chiesto l’avvio di un processo di modernizzazione. È vero che questi movimenti sono radicati sul territorio e, soprattutto in previsione delle elezioni politiche in Tunisia ed in Egitto, sono meglio attrezzati dei nascenti partiti politici per condurre una campagna elettorale. Tuttavia, se la comunità internazionale supporterà politicamente ed economicamente i governi di transizione, la minaccia del radicalismo islamico sarà sicuramente contenuta.
 
Carlo Marcotulli

lunedì 11 luglio 2011

Il mestiere più vecchio del mondo

Il mestiere più vecchio del mondo

All'inizio vi era il caos? No. All'inizio vi era la P2.

La P2 (Propaganda Due) è una loggia massonica nata al termine della seconda guerra mondiale in seguito alla caduta del fascismo che aveva abolito le libertà di stampa e soprattutto di associazione, l​e quali avevano portato allo scioglimento forzato dell'originaria Propaganda Massonica, nata nel 1877.
L'obiettivo della loggia era quello di influenzare in maniera diretta e indiretta tutta la vita economica, sociale e politica del nostro paese.

Dopo qualche decennio di silenzio ecco ritornare la carica delle P.
Prima la P3 e ora la P4 con la mirabolante figura di Luigi Bisignani, uomo di spicco dei giochi di potere del nostro paese.
Bisignani è un pregiudicato di 58 anni, ex membro della loggia P2. Dopo essere stato radiato dall'ordine dei giornalisti nel 2002, si dedica a tempo pieno alla professione dei suoi sogni: il faccendiere. E' un mestiere antico, affascinante, dinamico. Per farlo non bisogna avere titoli di studio particolari, non è necessario essere iscritto ad alcun Albo. Bisogna avere alcune caratteristiche imprescindibili: conoscenze influenti, faccia tosta, capacità di dialogo e persuasione.

Mi sono immaginato la giornata tipo del faccendiere:
sveglia ad orari variabili in base alle attività compiute la sera/notte precedente. Colazione davanti ai notiziari. E' qui che, appena cominciano le pagine di politica e di economia, l'attività entra nel vivo. Se il faccendiere si annoia sentendo le news, vuol dire che nei giorni precedenti ha fatto il suo dovere: tutto già sentito, tutto già stabilito.Doccia e vestito. Subito fuori per dirigersi nei luoghi del potere, nel suo studio privato. Il faccendiere accoglie persone in udienza. Lunghe file, una dopo l'altra. C'è chi entra sorridente ed esce alterato, c'è chi entra teso ed esce rilassato. Il faccendiere parla, telefona. Il faccendiere spiega, blandisce, scherza, minaccia, smussa, approva, insulta, preme, smorza, accusa. Non perde mai la calma, non una parola in più, non una parola fuori posto. E' saggio ed equilibrato. E soprattutto è convincente e influente.

Dopo un'intensa giornata a gestire gli affari del paese, il faccendiere partecipa ad una cena tra sguardi d'intesa e ossequi.

Torna a casa stanco, cerca di accarezzare il gatto che si divincola: non ha mai avuto un bel rapporto con lui. Guarda le notizie. Nulla di nuovo, nessuna sorpresa, tutto come previsto. Va a dormire. E il sonno dell'Italia degli ultimi decenni gli fa compagnia, gli mette sicurezza.
Marco Barbato