venerdì 25 novembre 2011

Tolleranza zero

“Quando lei dice no, vuol dire no. Zero. NON CI SONO SCUSE”.“Date la colpa alle donne. Date la colpa al bere. Date la colpa al tempo. Zero. NON CI SONO SCUSE”.“ Due donne su cinque subiscono violenza sessuale o stupro. NON CI SONO SCUSE”.

Comparvero ovunque a Edimburgo, sui muri, in televisione, negli uffici.  Era“Tolleranza Zero”, la prima campagna sociale a servirsi dei mass media per sfidare la violenza maschile contro donne e bambini, si presupponeva che contro di loro non fosse mai accettabile nessuna forma di sopruso. Irwine Welsh ne ha preso spunto per scriverci sopra un libro, parlava di uno stupro e del senso di colpa dello stupratore.
 
Oggi è la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Il 25 novembre 1960 le sorelle Mirabal, mentre si recavano a far visita ai loro mariti in prigione, furono bloccate sulla strada da agenti del Servizio Militare. Condotte in un luogo nascosto furono torturate, massacrate e strangolate, per poi essere gettate in un precipizio, a bordo della loro auto, per simulare un incidente. L’assassinio è ricordato come uno dei più truci della storia dominicana. In Italia solo dal 2005 diversi Centri antiviolenza e Case delle donne hanno iniziato a celebrare questa giornata (che esiste dal 2000), il cui scopo è l’eliminazione di tutte le forme di abuso sulle donne  attraverso  il riconoscimento a livello internazionale, regionale e locale della violenza di genere come violazione dei diritti umani.
 
Nel 2007 l’ISTAT ha condotto un’indagine sui soprusi e i maltrattamenti  dentro e fuori la famiglia in Italia. I risultati parlano di 6,7 milioni di donne tra i 16 e i 70 anni ( il 31,9% in questa fascia di età) che hanno subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita,  7,1 milioni hanno subito o subiscono violenza psicologica e 2,7 milioni sono stati sottoposti a comportamenti persecutori (stalking). Il 69,7 % degli stupri è opera di un partner ex o attuale, il 17,4 % di un conoscente e solo il 6,2 % è da parte di estranei. La misura del sommerso è agghiacciante: 2,9 milioni di donne hanno subito aggressione fisica o sessuale da marito o compagno, ma solo il  18,2%  considera la violenza in famiglia un reato, il 45,2%  di loro non ne parla con nessuno e il 93%  degli abusi causati da un partner non vengono denunciati.
 
Lo scorso marzo, il Parlamento Europeo ha approvato una Relazione sulla violenza di genere in Europa, nella quale sono formulate una serie di proposte, in relazione soprattutto ai maltrattamenti fra le mura domestiche. Ma in questo periodo di forte crisi economica, questi temi non sono una priorità, né a livello europeo, né italiano.
 
In chiusura, piccola opinione personale. La violenza non è solo terribile, è anche un linguaggio. Un modo di comunicare che si apprende facilmente, soprattutto se si è bambini. Spesso si impara che chi urla ha ragione.  La battaglia è prima di tutto culturale e passa attraverso il rispetto, nei grandi e nei piccoli gesti. Rispetto di idee e azioni. Non ci sono scuse, e quando lei dice no è no. Anche se l’altra persona è il marito, il fidanzato, il compagno. Ma soprattutto, non è MAI (e ripeto mai cento volte), colpa di una donna.
 
Q.

mercoledì 16 novembre 2011

La fine di niente

È finita. Così per lo meno sembra. Le promesse-minacce di Berlusconi, con le dimissioni ancora calde sul tavolo di Napolitano, non fanno sperare troppo bene. Non si è levato in vent'anni dopo numerose sconfitte, perché dovrebbe farlo ora? E così avverte e ammonisce che, nonostante non cercherà più ruoli istituzionali (nemmeno la presidenza della Repubblica?), continuerà a occuparsi di politica.
Ci sono alcuni aspetti che, malgrado tutto, è il caso di sviscerare. In primis, il misterioso successo di un uomo che per vent'anni è stato, tra alti e bassi, alla guida dello Stato. Spesso mi sono chiesto come ciò fosse possibile. A conti fatti, in vent'anni, non è rintracciabile una riforma qualsiasi del tanto millantato stampo liberale, o un'azione decisiva sulla società. Tutto quello che i governi Berlusconi hanno compiuto è stato progettato e realizzato per una cerchia ristretta di persone, tra queste manovre spiccano i vari condoni e scudi fiscali, la depenalizzazione del falso in bilancio e l'attacco alla magistratura (l'unico potere davvero libero del nostro paese).
A conti fatti, tracciando un'ipotetica tabella con i pro e i contro, non saprei davvero che cosa mettere sotto la prima voce. Chiedo per favore a qualche berlusconiano di indicarmene almeno uno, che non sia quella spaventosa (e dannosa) pagliacciata dell'ICI sulla prima casa (una delle poche tasse eque del nostro sistema tributario, tra l'altro).
Avevo circa 10 anni la prima volta che sentii il nome di Berlusconi e di Forza Italia, allora mi sembrò uno slogan in favore della nazionale di calcio. Non sapevo ancora che ben poco ero andato lontano dalla realtà. La destra di Berlusconi è una squadra di calcio. Lo è, a dire il vero, tutta la politica. L'italiano, in genere, nasce in un contesto di cui accetta tutti i dogmi, tra cui l'orientamento politico, ne fa una fede, un elemento imprenscindibile della propria identità. Essere di destra e di sinistra è identico al tifare una squadra di calcio: non importa se gioca bene o male, se piace o meno l'allenatore, l'"amore" per i colori vieni prima di ogni giudizio. Questo va bene finché si rimane nell'ambito calcistico, nel caso della politica, invece, si tratta di un atteggiamento dannoso. Il giudizio viene meno. Significa che viene a mancare proprio la facoltà che secondo Aristotele era fondante dell'essere umano: la ragione.
Ecco dunque nelle piazze il tifo per questo o quel politico, e chi se ne frega di quello che combina realmente. Berlusconi è stato difeso a priori, sempre e comunque.
Non è da mettere in dubbio, nell'autopsia del carrozzone berlusconiano, anche il ruolo (negativo) della sinistra e della rinverdita caccia alle streghe comuniste tipiche del primo periodo di Berlusconi, ritornato in auge negli ultimi anni, quando i "rossi" furono (casualmente) identificati con i magistrati. Amore contro odio, sfondo azzurro e sfumato contro luridume e ambiguità dei costumi, sorrisi rassicuranti contro burberi cipigli di demagoghi.
Per vent'anni siamo stati vittima di una pubblicità, di una televisione. Berlusconi ha ricilcato se stesso e la sua gente per due decadi nella stessa maniera Madonna in cui si ricicla ad ogni lustro e ad ogni nuovo brano. Si tratta di cambiare la crosta, ma la sostanza è la stessa. È penoso constatare, a questo riguardo, la scarsa capacità del popolo italiano di andare a fondo della questione, andare oltre, cioé, al cerone, allo sfondo azzurro, agli slogan liberal-cattolici, ai capelli tatuati in testa.
La superficialità piace agli italiani, piace la finzione e l'ostentazione, ama essere rassicurato e non invischiarsi troppo nelle cose. Gli piace la televisione, lo zapping, il mutamento, il rapido susseguirsi di biscottini mediatici che non permettono di prendersi un sano quarto d'ora per riflettere su quello che si è appena ingurgitato. Piace all'italiano lo slogan e la frase ad effetto come nei libri di Fabio Volo, brevi sentenze degne di essere trascritte sul diario di una quattordicenne, costruite per suscitare una reazione emotiva immediata, ma che, grattando appena la superficie con l'unghia, rivelano tutta la loro vacuità e insulsaggine, nel caso migliore solo una grande banalità (e ci sarebbe da riflettere sul meccanismo di come si possa edificare un enorme successo su simili procedimenti).
Berlusconi se ne va? Non il suo carrozzone (e nemmeno lui, a meno che non sia su un aereo per Aruba). Passa Letta in televisione e il mio gatto gonfia il pelo e sbarra gli occhi... così faccio anch'io. Rifiuta la vicepresidenza? Non mi rassicura per nulla, perché è sempre lì, e lo sarà anche dopo. Se non ci sarà lui, ci sarà un altro "uomo di Sua Santità" a controllare come un vero "Osservatore Romano".
Bene, cambia la guida, dunque. Formigoni sancisce la situazione della politica rispondendo ai "buffone", "in galera", alzando il dito medio alla folla (ma un po' di sana autocritica? Un po' di introspezione? Qualcuno s'è chiesto perché si arriva a tanto?). Il vero pericolo è nel dito medio di Formigoni, un dito che risponde in modo perentorio alle richieste di cambiamento e agli urli di esasperazione da sfogare di molti italiani scesi in piazza a Roma (e molti avrebbero voluto essere con loro). "Volete cambiare il paese? Volete cambiare i politici? Volete forse che si faccia qualcosa per la gente, che tutti noi ci mettiamo da parte per fare spazio a voi pezzenti? Pensate davvero che la terza Repubblica sarà qualcosa di diverso dalla seconda e dalla prima? Credete voi che la politica sia fatta per voi e per il vostro bene? Ecco, io sono la risposta. Io sono da questa parte della barricata, e voi dall'altra", dice il dito di Formigoni. E da qualche parte, ci scommetto, D'Alema sorride...

Alessandro Bardin

mercoledì 26 ottobre 2011

Chi ha paura del Lavoro Nero?


Quando si è piccoli talvolta si subisce il benevolo terrorismo psicologico da parte dei parenti più stretti: “Mangia, altrimenti arriva l'Uomo Nero!”, “Se non vai subito a dormire chiamo l'Uomo Nero!”. Dopo anni di ricerche in armadi, dopo aver perlustrato ogni palmo di superficie nascosta della mia camera, ho capito che la presenza malefica che mi terrorizzava o non gradisce la mia compagnia o, come fanno molti, viene in Italia solo per fare le ferie.
Ho passato così la mia giovinezza serenamente e ho studiato. Ho studiato più di quanto pensassi. Mi sono affacciato alla vita. All'improvviso però è cambiato tutto e le mie paure sono prepotentemente ritornate. Dal mio armadio e da sotto il letto sono spuntate due figure misteriose e affascinanti. La prima ha detto di chiamarsi Lavoro Nero. Mi ha offerto soldi, soldi e basta. La seconda più timida, magari anche perchè straniera. Ha detto di chiamarsi Stage e mi ha offerto esperienza, conoscenze e anche una piccola somma di denaro. Entrambe mi hanno fatto promesse, mi hanno fatto pregustare l'indipendenza economica grazie ad un lavoro ben retribuito e soddisfacente. Ho ceduto alle lusinghe, lo ammetto. Mi sono fatto convincere dai soldi e dalla possibilità di costruirmi un futuro. Sono stato uno stolto.
In seguito ho scoperto che questi due personaggi mi hanno fornito false generalità.

Lavoro Nero non è altro che Lavoro Irregolare. Ho indagato e scoperto diverse cose sgradevoli.
Egli ha violato diverse prescrizioni legali quali l'evasione completa o parziale delle tasse di diritto pubblico, non registra le proprie vittime agli Istituti Previdenziali (INPS, INAIL, ENPALS, ecc.) e oltre ad eludere il diritto fiscale, elude il diritto delle assicurazioni sociali, il diritto della concorrenza e il diritto in materia di stranieri.
Ho scoperto inoltre che è stato, di rado, anche condannato al pagamento di pene pecuniarie. La legge n. 248 del 2006, in particolare all’art. 36 bis “Misure urgenti per il contrasto del lavoro nero e per la promozione della sicurezza nei luoghi di lavoro”, prevede una sanzione amministrativa dai 1.500 ai 12.000 Euro se egli viene colto in flagranza di reato, con una maggiorazione di 150 Euro per ogni giorno effettivo e provato nel quale Lavoro Irregolare ha praticato le sue funzioni truffaldine.
Io comunque l'ho visto attivo e in buona salute. Evidentemente se la passa bene e nessuno è interessato al suo operato.
Stage invece ha diverse identità. Io la prima volta ho conosciuto quella francese. Egli è tutelato dalla legge transalpina e prevede una retribuzione stabilita al 30% del salario minimo applicabile sull'orario di lavoro settimanale di 35 ore (lunedi-venerdi) per un importo di 417,09 Euro al mese. Ho preso un appuntamento con Stage e mi si è presentato Tirocinio Formativo, quello italiano. Si sfregava le mani. Mi ha detto: “Se vuoi puoi venire con me. In teoria devi fare queste ore ma non ti posso assicurare nulla. In teoria dovresti avere queste mansioni, ma sai le esigenze aziendali... in teoria dovresti prendere questi soldi ma non so se e quando potrò darteli. Accontentati, devi fare esperienza. Ah una cosa. Se non vuoi non ti preoccupare. Ho sotto mano un elenco di migliaia di persone. Sai di chi parlo. Morti di fame, di futuro e indipendenza economica come te. Per me sei solo un numero, quindi se non te la senti nessun rancore. Un'ultima cosa. Sono tutelato dalla legge perchè la legge in realtà è poco chiara e addirittura non pretende quasi nulla da me. Se per caso volessi far valere i tuoi pochi diritti sappi che conosco persone che mi proteggono e mi proteggeranno da qualsiasi tuo tentativo di avere giustizia.”
Tirocinio Formativo aveva ragione. Ho accettato di seguirlo. Difficilmente incontrerò persone così sincere nella mia vita.

Marco Barbato

domenica 16 ottobre 2011

La Grande Crisi: i Perdenti. . .

In Italia e in Europa suona la sirena del Giorno del Giudizio. “A meno che non sia rimbambito, non suonava da quasi tre anni, ormai”. La geniale gag di Nonno Simpson è perfetta per sdrammatizzare l’attuale situazione, ed offre altresì lo spunto per inquadrare i recenti sviluppi economico-sociali in un contesto di lungo periodo. Prima di nascondere i risparmi sotto il cuscino e contare i giorni che mancano al 21 dicembre del 2012, è infatti utile ricordare che non siamo di fronte alla prima grande crisi internazionale, e che queste storicamente portano a grandi trasformazioni politiche, economiche e sociali, alla redistribuzione di ricchezza e potere tra i vari paesi del mondo e alla nascita di nuovi equilibri sistemici. In altre parole, ogni crisi si conclude sempre con dei vincitori e dei perdenti. Dal nostro punto di vista, il problema è che stavolta l’Occidente è il principale candidato a far parte della seconda categoria.
La crisi esplosa in seguito al crollo del settore immobiliare statunitense nel 2008 ha raggiunto un nuovo picco con la tempesta finanziaria abbattutasi quest’estate sull’economia europea. Per la prima volta sono emersi dubbi circa la sopravvivenza dell’Unione Europea e della moneta unica, e per riportare i bilanci sotto controllo quasi tutti i paesi dell’eurozona sono stati costretti a ricorrere a misure di emergenza, basate su consistenti tagli alla spesa pubblica, privatizzazione di numerose attività e servizi, riduzione degli stipendi dei dipendenti pubblici e aumento delle tasse. Ciò ha scatenando le proteste dei giovani, tra i più penalizzati da tali misure, che a milioni hanno occupato le piazze di Londra e Atene fino a Madrid. Fuori dall’Europa, la crisi ha messo in discussione persino la leadership economica mondiale degli Stati Uniti, le cui perduranti difficoltà vanno ben oltre il discutibile declassamento del debito ad opera dell’ancor più discutile agenzia di rating Standard & Poor’s.
Se sui media (tranne Rai e Mediaset) è possibile trovare autorevoli analisi sulle cause strutturali della crisi, lo stesso non si può però dire per gli avvertimenti lanciati dai tanti esperti convinti che le misure adottate non faranno che peggiorare la situazione. Ciò è tanto più incomprensibile laddove si consideri che il fallimento di programmi che impongono grandissimi sacrifici a milioni di cittadini farebbe sprofondare l’economia in una crisi ancor più grave, e il probabile rafforzamento delle misure di austerità rischia di far esplodere rivolte sociali in tutto il continente. Non è fantapolitica, visto che gli scontri ad Atene e a Londra di questa estate hanno mostrato ciò che potrebbe accadere in futuro. Il fatto è che l’allarme sembra giustificato: le misure anticrisi sono state elaborate dalla Banca Centrale Europea e dal Fondo Monetario Internazionale, ovvero due istituti accomunati dalla funzione di assicurare la stabilità finanziaria, indipendentemente dalla crescita economica, che è il vero motore della creazione di posti di lavoro. 
È vero che la crisi europea nasce dalla sfiducia dei mercati internazionali in merito alla capacità della Grecia, l’Irlanda, il Portogallo e l’Italia di sostenere il peso del proprio debito pubblico, ragion per cui la tenuta del fragile equilibrio dipende dalla solvibilità di questi paesi. Allo stesso tempo, però, i tagli e le misure di austerità, se non accompagnate da norme che salvaguardino gli investimenti e alcune essenziali forme di tutela sociale, finiranno per disincentivare le attività imprenditoriali e i consumi delle famiglie. Dal momento che la riduzione della spesa pubblica impedirà agli Stati di sostituirsi alle prime e di sostenere i secondi, il risultato sarà un ciclo depressivo, che condannerà l’Europa a una lunga fase di recessione.
L’attenzione si sposta dunque sulle soluzioni proposte per affrontare questa situazione, e da questo punto di vista arrivano segnali poco incoraggianti. Negli Stati Uniti Obama ha annunciato un piano da 447 miliardi di dollari per il rilancio dell’economia, basato su un mix di tagli alle spese e di aumento della tassazione per i redditi elevati. Tuttavia, l’opposizione del Congresso controllato dai Repubblicani e la prossimità delle elezioni Presidenziali lasciano aperto più di un dubbio circa la reale implementazione di un progetto così ambizioso. Dalle primarie del Partito Repubblicano stanno infatti emergendo il governatore del Texas Rick Perry e, soprattutto, Michelle Bachmann, esponente di quel Tea Party secondo cui la crisi è dovuta ai limiti alle libere attività economiche imposti dall’eccessiva presenza dello Stato, per cui la soluzione è una ulteriore riduzione dell’intervento pubblico e un deciso taglio delle tasse ai redditi alti. 
Nel quadro dell’interdipendenza economica globale, ciò che accade negli Stati Uniti ci interessa ancor di più se si considera che tali teorie si sono diffuse anche in Europa, seppur non tanto negli estremistici principi economici, quanto negli aspetti socio-culturali, fondati su una politica della paura e della promozione di ordine e sicurezza, di cui fanno le spese le fasce più a rischio della popolazione, dai lavoratori agli immigrati. Gli scandali di corruzione, che hanno minato la credibilità delle forze politiche tradizionali, hanno aperto la strada al successo dei movimenti xenofobi di destra in tutta Europa, e l’apatia della sinistra, incapace almeno dai tempi di Tony Blair di proporre un modello di convivenza e sviluppo alternativo, sta facendo il resto. In pratica, di fronte al fallimento politico, economico e socio-culturale di 30 anni di gestione ispirata ai principi neoliberisti della scuola di Chicago, che hanno mostrato la natura canaglia di un capitalismo libero da ogni forma di controllo e regolamentazione, la risposta che si sta facendo strada è quella che propone ancor meno regole e solidarietà.
 
I principali governi europei, in primis quello tedesco che si oppone strenuamente alla creazione di meccanismi di gestione comunitaria della crisi, non sono di aiuto. Eppure proprio il rilancio del processo di integrazione, che rimedi alla creazione di una moneta comune senza la previsione di un governo unico dell’economia, sembra in questo momento l’unica via di uscita. Un’Europa politica che sia in grado di elaborare una strategia di crescita nel quadro di un sistema di welfare comunitario, che preveda la gestione congiunta delle crisi e ne rimuova le cause strutturale stabilendo meccanismi di regolamentazione finanziaria. Un’Europa che superi il deficit di legittimità democratica e sia finalmente capace di generare un senso di identificazione tra i suoi cittadini. Non si tratta certamente di un percorso facile, tuttavia vale la pena ricordare che la dimenticata Strategia di Lisbona ha fissato più di dieci anni fa i principi sui quali dovrebbe basarsi un competitivo sistema di welfare comunitario, e che le grandi crisi offrono storicamente le migliori opportunità per avviare i cambiamenti epocali. Un consiglio per la sinistra europea: se l’Europa è stata l’intuizione di una illuminata elite conservatrice, intenzionata a impedire nuove guerre tra i paesi del continente, la spinta per la definitiva integrazione politica e sociale potrebbe rappresentare la frontiera e l’obiettivo capace di rilanciare le nostre agonizzanti forze progressiste.

Carlo Marcotulli

sabato 1 ottobre 2011

Il primo Personal Computer e l’inizio della fine

Siamo in crisi… lo sappiamo tutti. Ormai ovunque si scrive di questo paese stagnante, senza crescita, sempre più indebitato, incapace di reagire.
Non c’è da stupirsi. L’Italia ricorda un vecchio artritico: immobile e privo di interesse per il futuro. Chi ne ha la possibilità accaparra non tenendo conto dello sviluppo della nazione. D’altra parte, si sa, ci sono i “Pochi” che spremono la vacca grassa finché non stramazza a terra sfinita. La vacca grassa siamo noi.
Questo sistema non è nuovo: va avanti con continuità da molti decenni. È quasi consolante nella sua costanza. Vediamo un esempio: la storia di una grande azienda distrutta da un atteggiamento che, per non essere volgare, definirò soltanto “miope”. Ovviamente, non è solo il fallimento di un "marchio", è anche il fallimento del sistema di questo paese.
L’Olivetti nasce il 29 ottobre 1908 e quasi da subito si impone sul mercato per le celebri macchine da scrivere. Quarant’anni più tardi produce la Divisumma-14, la prima calcolatrice scrivente che sancisce l’inizio dei grandi successi dell’azienda. Ma la vera svolta arriva sotto la guida di un illuminato Adriano Olivetti (figlio del fondatore). Ed è una storia curiosa, che oggi ha un vago sapore di eccentricità (limitatamente all’Italia, in quanto all’estero sarebbe nella norma). Che cosa combina questo imprenditore un po’ folle? Mette un annuncio sul giornale alla ricerca di “fisici, ingegneri, matematici e tecnici”; insomma, tutti quei laureati che oggi non riescono a impiegarsi nemmeno come bidelli. 
Con un atto estroso decide di assumerli e pagarli (atteggiamento che sembra sancire l’inevitabile fine di ogni impresa contemporanea), collaborando inizialmente con l’Università di Pisa. D’altra parte Olivetti è già famoso per il trattamento anomalo dei suoi dipendenti: «La fabbrica di Ivrea è moderna e spaziosa. Una delle peculiarità dei fabbricati è la massiccia utilizzazione del vetro, voluta dallo stesso Olivetti affinché gli operai che vi lavorano, spesso strappati al mondo rurale, possano continuare a sentirsi a contatto con la natura e avvertirsi come parte del paesaggio, circondati e avvolti dalla luce. I dipendenti Olivetti godono di benefici eccezionali per l’epoca: i salari sono superiori del 20% della base contrattuale, oltre al salario indiretto costituito dai servizi sociali, le donne hanno nove mesi di maternità retribuita (quasi il doppio di quanti ne hanno oggi, per intenderci) e il sabato viene lasciato libero, prima ancora di ogni contrattazione sindacale. L'orario di lavoro viene ridotto da 48 a 45 ore settimanali, a parità di salario, in anticipo sui contratti nazionali di lavoro.» (da www.lastoriasiamonoi.rai.it)
Ci sono già troppe cose che sorprendono, senza contare gli affreschi di Guttuso e i concerti di Luigi Nono: gente con un contratto di lavoro e uno stipendio; rapporto università-lavoro; assunzione di perfetti sconosciuti. Ma non è finita! Ciò che più lascia sconvolti, è che Adriano Olivetti aveva un’idea… altro aspetto dell’industria che ha fatto la stessa fine del Dodo e della satira: si è estinto. Credeva che l’elettronica fosse il futuro, perciò ha deciso di investire (parola tabù) tempo e risorse su questa sua idea. Per il dinamismo, la lungimiranza e il circolo di intellettuali che la frequentavano, la Olivetti venne definita la “Atene degli anni Cinquanta”.
C'è da chiedersi se un simile comportamento l'abbia portato al fallimento. La risposta è: no. E qualcuno dovrebbe stupirsene.Grazie al suo team, guidato da Mario Tchou, l’Olivetti elabora, disegna e produce l’Elea 9003, il primo calcolatore elettronico completamente a transistor, presentato alla Fiera di Milano nel 1959. È un successone. Si tratta di un sistema innovativo (persino nel design) che garantisce l’espansione sul mercato internazionale dell’azienda.
Una frase di Tchou meriterebbe di essere scolpita in quei gerontocomi che sono Parlamento e Senato: «Le cose nuove si fanno solo con i giovani. Solo i giovani ci si buttano dentro con entusiasmo, e collaborano in armonia senza personalismi e senza gli ostacoli derivanti da una mentalità consuetudinaria».
Una serie di sventure mette in crisi l’Olivetti: nel 1960 muore Adriano e la crisi generale aggrava la situazione finanziaria (resa ancora più difficile da dissidi familiari).
Viene così il momento per l’intervento dall’esterno: l’Italia ci mette la zampa, come un re Mida al contrario… Lo Stato (cioè i partiti, soprattutto la DC) pensa bene che non valga la pena sostenere l’Olivetti. Entrano allora in scena i grandi imprenditori con il Gruppo d’intervento, formato da: Fiat, Pirelli, Mediobanca, IMI, La Centrale.
Memorabili rimarranno nella storia le parole di Vittorio Valletta (presidente Fiat e poi senatore a vita): “La società di Ivrea è strutturalmente solida, sul suo futuro pende però una minaccia, un neo da estirpare: l’essersi inserita nel settore elettronico”. È così che il reparto più produttivo e innovativo della Olivetti viene venduto alla General Electric.
Non è finita. Nel 1965, quel 25% della Divisione Elettronica ancora di proprietà italiana presenta il Programma 101, che non è nient’altro che il primo personal computer, in anticipo di circa un decennio sul resto del mondo. Alla fiera di New York del 65 il P101 dovette essere “nascosto” in quanto al reparto italiano era di competenza solo la “piccola elettronica”.
La nuova guida dell’azienda non ne capì le potenzialità. E pare fossero gli unici, considerata la folla che prese letteralmente d'assalto lo stand della Olivetti e che costrinse gli organizzatori della fiera a ridisegnare tutti gli spazi assegnati.
La General Electric prese il restante 25% dell’azienda. L’Italia salutò così un settore poco proficuo e senza futuro come quello dell’informatica…
Fine della favola.

Alessandro Bardin

domenica 4 settembre 2011

Vuoi sposarmi?

E così l’Empire State Building si colorò di arcobaleno. Un venerdì di fine giugno il governatore dello stato di New York ha detto sì, permettendo a migliaia di uomini e donne di dire sì a loro volta, coronando i propri sogni d’amore omosessuale.
Andrew Cuomo ha infati avallato la decisione del Senato dello stato di rendere legali i matrimoni tra persone dello stesso sesso, diventando così il sesto stato, assieme a Connecticut, Iowa, Massachusetts, New Hampshire, Vermont e  il District of Columbia, in cui l’unione gay è ammessa.

Quattro senatori repubblicani hanno votato a favore della legge, diventando decisivi per l’approvazione. Uno di loro, Mark Grisanti, ha detto:

"Chiedo scusa a coloro che si sentono offesi. Ma non posso negare a un essere umano, a un contribuente, a un lavoratore, alla gente del mio collegio e di questo stato, lo stato di New York, e a coloro che lo rendono grande gli stessi diritti che ho assieme a mia moglie".

In America sono dieci anni che imperversa la battaglia sui matrimoni omosessuali, diventati un punto di scontro tra due culture e due visioni etiche alla pari dell’aborto. La legalizzazione ha conosciuto avanzate e battute d’arresto, tra voti nelle assemblee legislative degli stati, referendum e sentenze dei tribunali.
 Barack Obama, pur senza pronunciarsi, si è dimostrato cautamente possibilista: nel febbraio 2011 ha ordinato al suo dipartimento di Giustizia di non difendere più il Marriage Act, (legge approvata nel 1996 che legittima e concede valore ed equiparazione legale unicamente ai matrimoni tra uomini e donne), di fronte ai ricorsi in tribunale. Per la prima volta il governo federale si mette in una posizione di non interferenza.

In Europa e nel mondo, la questione sui matrimoni omosessuali è aperta e complessa, soprattutto sul punto riguardante la possibilità di adottare bambini .
In linea di massima, scrive Dan Fastenberg sulla rivista “Time”, il riconoscimento del matrimonio tra omosessuali si è affermato meglio nei paesi con sistemi giuridici che derivano dal diritto romano.

I paesi in Europa che hanno legalizzato le nozze gay sono sette, molti però riconoscono in qualche forma comunque le unioni. I Paesi Bassi sono stati, nel 2001, la prima nazione a consentire il matrimonio tra omosessuali, mentre persone dello stesso sesso si possono sposare in Norvegia, Islanda, Finlandia e Svezia, in quest'ultimo paese pure in chiesa (unico al mondo). In Spagna dal 2005 è consentito sia il matrimonio, sia l’adozione, mentre in Portogallo da aprile è possibile il matrimonio (non l’adozione).
Per quanto riguarda le unioni civili, la Danimarca è stato il primo paese al mondo ad autorizzare, nel 1989, il matrimonio civile (partenariato registrato) tra omosessuali, i quali non possono però ricorrere all'inseminazione artificiale né adottare. In Germania nel 2001 il "contratto di vita comune" garantisce alle coppie omosessuali diritti simili a quelli del matrimonio, in Francia, dal 1999, la legge  ha adottato i Pacs, le unioni civili per le coppie etero e omosessuali. Non ammesse invece le eredità e le adozioni. Nel Regno Unito, dal 2005, il "partenariato civile" garantisce alle coppie gay diritti pressoché identici rispetto a quelle etero in materia d'eredità, impiego e pensioni. In Ungheria le coppie dello stesso sesso sono riconosciute come "amanti", ma è esclusa l'adozione. In Croazia "Reciproco sostegno" e diritto all'eredità sono garantiti alle coppie omosex da una legge adottata nel 2003.
Al di là dell’oceano, Canada e Argentina (primo paese in america latina) riconoscono per legge i matrimoni gay,  in Nuova Zelanda le coppie hanno gli stessi diritti ma il matrimonio è concepito solo tra uomini e donne. In Africa invece gran parte degli stati considera reato penale l’omosessualità, solo il Sud Africa ha legalizzato nel 2006 le unioni civili.
In tutto il mondo, sono quindici gli stati (considerati i sei negli USA) in cui è consentito per legge il matrimonio gay, mentre sono una ventina le nazioni in cui è possibile ricorrere alle unioni civili.
Fra questi paesi, non compare l’Italia.

[Q]

domenica 31 luglio 2011

Riflessioni su Libia e dintorni - Parte II

Quali sono, dunque, le reali problematicità della cosiddetta Primavera Araba? Rispondere a questa domanda ci riporta ai fatti recenti, in particolare a due aspetti. Innanzitutto, la Tunisia e l’Egitto, dove la nuova fase politica è iniziata quasi senza spargimenti di sangue, sono accomunati dal fatto di avere una lunga tradizione statale, un senso di identità nazionale abbastanza radicato, e un’istituzione, l’esercito (in Marocco è la monarchia), rappresentante e garante di questa unità, che non a caso si è posto alla guida del processo di transizione. Questo non vale per la Libia, la Siria e lo Yemen, creazioni dell’epoca coloniale, in cui le potenze europee hanno riunito tribù e gruppi sociali diversi, da allora in competizione per il controllo delle istituzioni. In questi contesti, la perdita del potere da parte del gruppo al comando è una questione di vita o di morte, dal momento che dal potere passa l’accesso alle scarse risorse del paese. Così si spiegano le violenze interetniche esplose tra le tribù della Cirenaica (i ribelli di Bengasi) e della Tripolitania (i fedelissimi di Gheddafi), tra i diversi gruppi sciiti opposti alla famiglia Assad in Siria (paese oltretutto a maggioranza sunnita), e tra sostenitori ed oppositori del Presidente yemenita Saleh. La spirale di violenze avviata dalla repressione di Saleh e da Assad (e da Gheddafi prima del necessario ma mal organizzato intervento della Nato), mostrano che in Medio Oriente e nei paesi del Golfo si giocherà una partita molto più complicata, di cui non è possibile ipotizzare né determinare la soluzione (casomai qualcuno ipotizzasse davvero un coinvolgimento della Nato al di fuori della Libia).
Un secondo elemento di incertezza circa lo sviluppo della situazione è rappresentato dalla posizione di Israele. Il governo di Tel Aviv è tra i più preoccupati dalle rivolte. Dietro le dichiarazioni di facciata a sostegno della democrazia, Israele sa di avere tutto da perdere da un cambio di governo in Siria, oltretutto dopo la caduta di Mubarak in Egitto e il recente ingresso di Hezbollah nella coalizione di governo libanese. Coi dittatori oggi in difficoltà, Israele ha infatti negoziato negli ultimi 30 anni uno status quo accettabile, grazie ad accordi formali, la pace con l’Egitto, e intese de facto, la non belligeranza con la Siria. L’avvento di nuovi governi rivoluzionari potrebbe rompere questo fragile equilibrio, come anticipato sia dalla decisione dell’esecutivo di transizione egiziano di aprire il Canale di Suez alle navi iraniane, che dalle provocazioni di Assad, che per esercitare pressioni ha permesso a gruppi di rifugiati palestinesi di raggiungere il confine israeliano e di ingaggiare battaglia con le forze di frontiera. Tel Aviv potrebbe dunque muoversi in funzione del mantenimento dello status quo.
Gli Stati Uniti potrebbero svolgere una importante funzione stabilizzatrice. Alla fine di maggio Barack Obama ha illustrato al Congresso le linee guida del la nuova politica americana nella regione. Le sue parole hanno evidenziato l’intelligenza di un Presidente rimasto coerente con il discorso all’Università del Cairo nel 2009 (quello che gli è valso il premio Nobel), quando aveva annunciato una nuova stagione di rapporti col mondo arabo, basata sul basso profilo statunitense e su una maggiore reciprocità. Non a caso, non una bandiera americana è stata finora bruciata nelle piazze arabe in rivolta, mentre molti paesi della Lega Araba hanno aderito alla missione della Nato in Libia. Ciò non toglie, comunque, che stavolta saranno gli stessi paesi arabi ad avere l’ultima parola su quelli che saranno i nuovi assetti regionali.

Carlo Marcotulli 

1 Fonti: CIA – The World Factbook e US Census Bureau – International Data Base

domenica 24 luglio 2011

Riflessioni su Libia e dintorni - Parte I

È difficile trovare un aggettivo più adeguato dello spesso abusato “storico” per definire gli eventi che stanno ridisegnando la geografia politica del mondo arabo. Basti pensare che, nell’età contemporanea, solo nel 1848 e nel 1989 era capitato che un’intera regione fosse attraversata da movimenti rivoluzionari. Ecco perché a quattro mesi dall’inizio dei bombardamenti della Nato in Libia, in cui l’Italia è impegnata attivamente, si avverte l’esigenza di fare un po’ di chiarezza su quanto sta avvenendo a due passi da casa nostra. Questo a fronte di un dibattito politico interno che ha ridotto il tutto ad un problema di invasione delle nostre coste da parte di migliaia di uomini e donne in fuga.
L’articolo non pretende di analizzare tutte le specificità di un processo che coinvolge paesi molto diversi tra loro. L’obiettivo è, semmai, sviluppare qualche riflessione di carattere generale, che permetta di inquadrarne gli aspetti essenziali. In tal senso, il primo elemento da tenere a mente è che l’origine delle rivolte va ricercata, come quasi sempre accade, nell’economia. L’Egitto, La Tunisia, la Siria, lo Yemen (ma anche il Marocco e l’Algeria) hanno una lunga tradizione di governi autoritari e corrotti che, accentrando su di sé e sulla ristretta cerchia dei propri sostenitori le limitate risorse del paese, hanno sempre costretto la maggior parte della popolazione a sopravvivere in condizioni di difficoltà. Il fragile equilibrio si è spezzato alla fine del 2010, quando elementi contingenti, tra cui la distruzione dei raccolti di frumento russi, e strutturali, l’aumento della domanda di beni primari da parte della Cina e dell’India, hanno causato un rialzo dei prezzi dei prodotti di prima necessità, che a quel punto sono divenuti inaccessibili per le popolazioni arabe. Il venditore ambulante tunisino Mohamed Bouazizi, che dandosi fuoco il 17 dicembre 2010 per protestare contro il carovita ha fatto esplodere la scintilla della rivolta in tutto il Mediterraneo meridionale, è l’emblema di questo discorso. In quella situazione di instabilità, l’adozione da parte dei governi colpiti dalle proteste di misure miranti a calmierare i prezzi dei prodotti alimentari, interpretata come un segnale di debolezza, è stata la molla che ha spinto centinaia di migliaia di persone ad invadere le piazze principali di Tunisi, Il Cairo ad altre città.
Qui entra in gioco l’elemento politico, dal momento che, questa è la grande novità, alla testa delle rivolte si sono messe le giovani generazioni arabe. Il 20% della popolazione del Nord Africa e del Medio Oriente ha un’età compresa tra i 15 ed i 24 anni, e la metà degli abitanti di quei paesi ne ha comunque meno di 30. Si tratta in larga parte di giovani diplomati e laureati, con una formazione ed una consapevolezza molto più elevate di quelle dei loro genitori, ma comunque insufficienti per trovare lavoro in patria e all’estero, dove patiscono la maggiore preparazione dei laureati europei, statunitensi, cinesi ed indiani. Questi ragazzi sono dunque scesi in piazza, aggirando la censura e la repressione delle forze di sicurezza utilizzando twitter, facebook e tutti gli strumenti che la tecnologia mette loro a disposizione, e l’effetto è stato dirompente.
Queste ultime considerazioni la dicono lunga circa la superficialità con cui è stato paventato il pericolo di una radicalizzazione in senso religioso delle rivolte. Non a caso, tanto i Fratelli Musulmani quanto i gruppi salafiti sono stati colti di sorpresa dagli eventi, tanto che al loro interno è iniziata una vera e propria resa dei conti, con le componenti più giovani che hanno chiesto l’avvio di un processo di modernizzazione. È vero che questi movimenti sono radicati sul territorio e, soprattutto in previsione delle elezioni politiche in Tunisia ed in Egitto, sono meglio attrezzati dei nascenti partiti politici per condurre una campagna elettorale. Tuttavia, se la comunità internazionale supporterà politicamente ed economicamente i governi di transizione, la minaccia del radicalismo islamico sarà sicuramente contenuta.
 
Carlo Marcotulli

lunedì 11 luglio 2011

Il mestiere più vecchio del mondo

Il mestiere più vecchio del mondo

All'inizio vi era il caos? No. All'inizio vi era la P2.

La P2 (Propaganda Due) è una loggia massonica nata al termine della seconda guerra mondiale in seguito alla caduta del fascismo che aveva abolito le libertà di stampa e soprattutto di associazione, l​e quali avevano portato allo scioglimento forzato dell'originaria Propaganda Massonica, nata nel 1877.
L'obiettivo della loggia era quello di influenzare in maniera diretta e indiretta tutta la vita economica, sociale e politica del nostro paese.

Dopo qualche decennio di silenzio ecco ritornare la carica delle P.
Prima la P3 e ora la P4 con la mirabolante figura di Luigi Bisignani, uomo di spicco dei giochi di potere del nostro paese.
Bisignani è un pregiudicato di 58 anni, ex membro della loggia P2. Dopo essere stato radiato dall'ordine dei giornalisti nel 2002, si dedica a tempo pieno alla professione dei suoi sogni: il faccendiere. E' un mestiere antico, affascinante, dinamico. Per farlo non bisogna avere titoli di studio particolari, non è necessario essere iscritto ad alcun Albo. Bisogna avere alcune caratteristiche imprescindibili: conoscenze influenti, faccia tosta, capacità di dialogo e persuasione.

Mi sono immaginato la giornata tipo del faccendiere:
sveglia ad orari variabili in base alle attività compiute la sera/notte precedente. Colazione davanti ai notiziari. E' qui che, appena cominciano le pagine di politica e di economia, l'attività entra nel vivo. Se il faccendiere si annoia sentendo le news, vuol dire che nei giorni precedenti ha fatto il suo dovere: tutto già sentito, tutto già stabilito.Doccia e vestito. Subito fuori per dirigersi nei luoghi del potere, nel suo studio privato. Il faccendiere accoglie persone in udienza. Lunghe file, una dopo l'altra. C'è chi entra sorridente ed esce alterato, c'è chi entra teso ed esce rilassato. Il faccendiere parla, telefona. Il faccendiere spiega, blandisce, scherza, minaccia, smussa, approva, insulta, preme, smorza, accusa. Non perde mai la calma, non una parola in più, non una parola fuori posto. E' saggio ed equilibrato. E soprattutto è convincente e influente.

Dopo un'intensa giornata a gestire gli affari del paese, il faccendiere partecipa ad una cena tra sguardi d'intesa e ossequi.

Torna a casa stanco, cerca di accarezzare il gatto che si divincola: non ha mai avuto un bel rapporto con lui. Guarda le notizie. Nulla di nuovo, nessuna sorpresa, tutto come previsto. Va a dormire. E il sonno dell'Italia degli ultimi decenni gli fa compagnia, gli mette sicurezza.
Marco Barbato

domenica 26 giugno 2011

"Nave sanza nocchiere…"

Che la politica e la società civile siano, in Italia, due entità in contrasto storico, è risaputo.
Da qualche tempo un nuovo aspetto di questo conflitto si è imposto all’attenzione di tutti: si tratta degli insulti di certi politici alla popolazione.
Il più recente vede protagonista Brunetta e la sua definizione dei precari come “la peggiore Italia”. Il sedicente candidato-premio-nobel, dopo la diffusione della notizia, non ha mai chiesto scusa o mostrato pentimento. Contrariamente a ciò che sarebbe successo in qualsiasi altro paese democratico, il ministro ha sfruttato i media per difendersi, esibendo una faccia tosta e un’arroganza a cui ci siamo (forse) troppo abituati. “Insultando” indirettamente l’intelligenza degli ascoltatori, ha mentito senza vergogna sull’accaduto, nonostante il video sbugiardi la sua versione sotto ogni punto di vista.
Ecco com’è andata (e molti già lo sapranno): appena sentita la parola “precaria” il ministro è balzato giù dal palco, congedandosi con un atteggiamento supponente e una cafoneria, questa sì, da premio nobel. Simili teatrini sono una nuova prerogativa di molti personaggi pubblici caratterizzati da presuntuosa maleducazione, condita dalla più proverbiale “faccia di bronzo”.
Il “format” lo conosciamo bene noi italiani: non appena
si muove una critica o è fatta menzione a un problema serio del paese, i politici se la danno a gambe, insultano, minimizzano con irritante ironia, si autocelebrano, si chiudono in una solidarietà reciproca che ha tanto il sapore di “omertà”. Qualsiasi mezzo è buono al fine di sviare, e non affrontare i problemi che la gente, sempre più inquieta, vorrebbe fossero presi in esame seriamente. Si sente nel sottofondo di tutto questo un motivo ricorrente: “Non rompete i coglioni!”.
Il 22 di giugno, i precari della scuola hanno manifestato davanti a Montecitorio. La risposta dello Stato, come spesso succede, è stata portata dai manganelli della polizia. Una risposta degna di ogni democrazia.
Tanto per chiarire: cosa sono i precari? Gente senza futuro.
La gravità della loro situazione non concerne solamente un numero limitato di persone direttamente coinvolte. Se la maggioranza dei (più o meno) giovani è costituita da precari, il paese è impossibilitato a crescere, e ciò potrebbe comportare tagli ai servizi, crescita del debito, e un tracollo economico. Non è per esuberante filantropia che la Francia sta investendo qualcosa come 16 miliardi di euro sui giovani (compresi i non francesi di nascita!). E’ stato infatti calcolato che negli anni a venire, un tale sacrificio, li porterà ad un risparmio di circa una ventina di miliardi.
Il numero dei precari in Italia non è trascurabile. Secondo il Corriere della Sera, la disoccupazione giovanile si aggira intorno al 25%. E tra coloro che un lavoro ce l’hanno, sono a tempo indeterminato solo il 15%. In totale (giovani e non), i precari sono circa 3.757.000.
Hanno un bel dire i nostri politici che i giovani sono “bamboccioni” e che dovrebbero andare a “scaricare la frutta ai mercati generali”; il sempre maggior numero di ragazzi che si fanno sfruttare da stage senza sbocchi pur di lavorare e aggiungere esperienze ai loro curricula cresce di anno in anno: nel 2009 erano 321.850, con un aumento di quasi il 40% in 3 anni. Una nota curiosa: Brunetta, secondo l’associazione H2, avrebbe per sé qualcosa come 30 stagisti.
Il problema del “precariato” si inserisce in un discorso più vasto: la non-guida della politica, e la mancanza di una visione che guardi al futuro. Chi governa (e questo ormai da molti decenni) non è in grado di calcolare il lungo periodo: investire su giovani, sulla ricerca, sulla competitività. Prova ne sono i molti brevetti (dagli anni ’60 ad oggi) non finanziati in Italia, e realizzati poi all’estero; oltre ai numerosi studiosi e lavoratori specializzati costretti a migrare, che finiscono così per arricchire (in tutti i sensi) i paesi stranieri.  Risulta chiaro l’andamento generale se si pensa che in Italia si destinano per le borse di studio 481 milioni di euro, a fronte dell’1 miliardo e 400 milioni previsti dalla Germania allo stesso scopo.
Una visione così ristretta, miope, l’attenzione al guadagno immediato, la mancanza di investimenti, la politica di spremere i contribuenti e non dare nulla in cambio, sta stressando la società e compromettendo il futuro di questo paese, e non solo economicamente.
Coloro che detengono il potere delegato dal popolo, dovrebbero guidare questo stesso popolo, come un capitano con il suo vascello. Sfortunatamente non è così.
  

“Ahi serva Italia, di dolore ostello,
Nave sanza nocchiere in gran tempesta
Non donna di province, ma bordello!”
(Dante, Pur. VI)

Alessandro Bardin
 

venerdì 17 giugno 2011

Quanto costano gli immigrati in Italia?

Quanto costano  gli  immigrati in Italia ?   Definizione di immigrato, secondo le tabelle ISTAT :   <<  un immigrato è una persona straniera nata all’estero e residente in Italia. Le persone di cittadinanza italiana nate all’estero che risiedono in Italia non sono contabilizzate tra gli immigrati. All’opposto, alcuni immigrati possono aver acquisito la cittadinanza italiana. La caratteristica di immigrato è una caratteristica permanente: un individuo continua ad appartenere alla popolazione immigrata anche se acquisisce la cittadinanza italiana. E’  il paese di nascita, e non la cittadinanza, che definisce l’origine geografica di un immigrato.>>.  
Secondo le cifre fornite dall’istituto statistico nazionale, nel 2011 gli immigrati in Italia sono 4 milioni e 563 mila, circa il 7 % del totale dei residenti. La comunità straniera più folta è quella rumena (circa 1 milione), seguita da quella albanese (491 mila) e  marocchina (457 mila). 
Negli ultimi sette anni il numero di immigrati è raddoppiato: comprensibile  restare scossi di fronte a un processo di tale impetuosità. Un flusso così importante può portare a reazioni di paura e spavento, sapientemente innaffiate in certi  casi  dalla propaganda di alcuni partiti politici.  E’ necessario quindi fare chiarezza tramite le cifre, visto che le cifre, solitamente , non mentono.    
Pensiamo ad esempio ai clandestini: secondo un sondaggio fatto da “postpoll” gli italiani credono che  la metà degli immigrati sia formata da clandestini (e quindi probabilmente delinquenti): secondo la Caritas invece non raggiungono il mezzo milione, e all’interno di questo numero vanno contati pure gli “irregolari”, stranieri senza  i requisiti necessari per la permanenza sul territorio nazionale, di cui però erano in possesso al momento dell’ingresso . 
Anche sulla “delinquenza” le cifre ridimensionano le percezioni. Su un totale di 70 mila carcerati (dati aggiornati al 2009 del ministero della giustizia) gli italiani sono il 65 %. I galeotti stranieri sono circa 24mila, molti dei quali (11 mila) arrestati per reati legati agli stupefacenti (si tratta quindi di microcriminalità).   
E’ interessante valutare quanto costano gli immigrati alla nazione, giusto per vedere se davvero, come spesso si sente dire, costituiscono una spesa quasi insostenibile per lo stato sociale e le nostre tasche.  I calcoli, in verità,  sono piuttosto complessi: studi compiuti dalla Banca d’Italia e Caritas testimoniano che nella sanità si possono addebitare agli stranieri il 2,5 % dei costi (circa 2,7 miliardi di euro). Nella scuola si arriva  al 6 % (2,5 miliardi di euro), mentre  per i servizi sociali comunali vengono destinati agli immigrati 400 milioni di euro (circa il 7 %), dei quali solo 130 per interventi di integrazione sociale. Per la giustizia (carceri e tribunali) gli immigrati hanno un’incidenza di circa 2 miliardi di euro (25 %). Le spese causate da utenti stranieri nel campo del welfare ammontano a circa 9,3 miliardi di euro. La cifra è sicuramente importante, la crescita del numero di immigrati ha messo sotto pressione alcuni settori come la scuola, la sanità e le carceri.  
Va però necessariamente comparata a quanta ricchezza porta all’Italia la cittadinanza extra italiana, e pure in questo caso i numeri sono incontestabili: se si sommano i contributi previdenziali al gettito fiscale, raggiungiamo la cifra tonda di 10 miliardi di euro che entrano nelle casse dello stato. Quindi, tirando le somme, fanno guadagnare allo stato nazionale circa 700 milioni di euro. 
Gli immigrati inoltre, secondo un’indagine ISTAT, colmano i vuoti generazionali lasciati dagli italiani. Gli stranieri residenti in Italia hanno un’età media di 31,5 anni, più bassa rispetto a quella dei residenti di cittadinanza italiana (44.2). Il 16,5 % delle nascite totali, nel 2009, sono attribuibili a madri straniere, le quali danno un  enorme contributo a mantenere su livelli discreti il tasso di natalità in Italia.  
Quindi gli immigrati sono giovani, quasi tutti “in regola”, non particolarmente disonesti o delinquenti, pagano le tasse, fanno figli  e producono ricchezza per il nostro paese. Tutto finisce qui? Sicuramente no. Il problema è complesso, va a toccare molteplici aspetti  anche di natura culturale. Il contatto con abitudini diverse può portare nel lungo periodo a un arricchimento complessivo ma nel breve crea problemi, risolvibili solo con una politica attenta e mirata.   Prima di fare questo, è importante però sapere che i numeri sono assolutamente dalla loro parte.     
 
[Q]

giovedì 9 giugno 2011

Speciale Referendum 3 - Legittimo impedimento

4° Referendum: la legge è uguale per tutti  

“Volete voi che siano  abrogati l’articolo 1, commi 1,2,3,5,6 nonché l’articolo 2 della legge 7 aprile 2010 numero 51 recante “disposizioni in maniera di impedimento a comparire in udienza?”.  

Questo è quello che troverete scritto sulla scheda di colore verde, il quarto referendum, quello sul “legittimo impedimento”.          
La legge, già parzialmente modificata dalla Corte Costituzionale il 13 gennaio 2011 (violava il principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge), consente al Presidente del Consiglio dei ministri (art.1 comma 1) e ai ministri stessi (art.1 comma 2) di non presentarsi ai procedimenti in cui sono imputati adducendo come legittimo impedimento qualsiasi attività essenziale per le funzioni di governo (art.1 comma 1).
Il giudice deve  rinviare  il processo ad altra udienza (art.1 comma 3) e  le disposizioni della legge si applicheranno anche alle procedure penali in corso “in ogni fase, stato o grado” (art.1comma 6).      

Se si raggiungerà il quorum e vincerà il SI, tutto questo verrà cancellato e non esisterà più.   
Le malelingue dicono che la norma è da annoverarsi tra le cosiddette “ leggi ad personam” (ad oggi sono 37) e favorirebbe di fatto la posizione processuale di Berlusconi.
Infatti, accostata a quella sul processo breve, consentirebbe al Premier di mandare in prescrizione alcuni suoi procedimenti penali, fra i quali il processo Mills, Mediatrade, Mediaset e Rubi, violando di conseguenza il principio per cui ogni cittadino è uguale di fronte alla legge.   
Ma sono solo malelingue, ovviamente.  

 [Q]

mercoledì 8 giugno 2011

Speciale Referendum 2 - Il nucleare

La scheda grigia interroga i cittadini riguardo l’utilizzo dell’energia nucleare in Italia.
Il piano originale di Scajola prevedeva la costruzione di 4 centrali (8 reattori in tutto), al fine di coprire il 25% della produzione energetica nazionale.
Le norme del decreto Omnibus cambiano parzialmente i termini: prevedono la sospensione di ogni legge in materia di energia nucleare per 12 mesi.

In soldoni:
Se vince il SI ogni proposta per l’utilizzo del nucleare in Italia sarà bloccata, almeno finché la ricerca non garantirà efficienza e sicurezza con nuove tecnologie.

Se vince il NO, il governo si prenderà un anno di tempo “al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche” , al termine del quale sarà introdotto il nucleare nel Piano energetico nazionale.

I punti di vista dei pro e dei contro sono chiari.
Per chi è favorevole l’energia derivata dall’atomo è all’avanguardia, è più sicura e meno inquinante (soprattutto per quanto riguarda i gas serra), e avrebbe il merito di diminuire notevolmente l’importazione di energia da altri paesi.
I contrari sottolineano la fondamentale insicurezza degli impianti, soprattutto in un territorio sismico come quello italiano, e il pericolo che concerne lo smaltimento delle scorie radioattive (che decadono nel giro di 100.000/150.000 anni).  Altri elementi di dubbio sono il progressivo esaurimento delle scorte di uranio e gli alti livelli di CO2 (pari al 30% di quelli emessi da una centrale a gas).

È bene comunque sintetizzare alcuni punti su di una questione così controversa.
Prima di tutto i costi. Confindustria ha calcolato che le casse dello Stato dovranno sborsare circa 5 miliardi di euro per ogni reattore (qualcuno sostiene dai 40 ai 50 miliardi di euro in totale). Questo è il preventivo ammesso che i lavori non subiscano alcun tipo di ritardo. Fortunatamente in Italia siamo famosi per la puntualità (vedi esempio TAV)…
Si è spesso sbandierato il reattore di Generazione IV come garanzia di sicurezza ed efficienza. In realtà tali modelli di reattore sono ancora in fase di sperimentazione, e le prove stanno dando numerosi problemi tecnici. La loro messa a punto è rimandata per il decennio 2030-2040 (i più ottimisti ritengono comunque che non saranno realizzabili prima del 2020).
La convenienza per l’Italia di lanciarsi ora nel nucleare è messa in dubbio da molti. Prima di tutto perché altri paesi (come Germania e Svizzera) lo stanno progressivamente abbandonando, optando per le rinnovabili;  inoltre perché le centrali italiane, se costruite in questi anni, al momento d'avvio saranno obsolete non solo in confronto a fonti alternative, ma anche rispetto ad altre centrali nucleari ora in fase di progettazione (un esempio su tutti: le centrali a fusione -e non a fissione-, portati avanti dai progetti ITER e successivamente DEMO).
Infine, è lecito chiedersi se sia proficuo investire nel nucleare in un paese dove la malavita è così presente (l’esempio dell’eolico parla chiaro), e dove lo Stato non è ancora in grado di gestire in maniera efficiente i semplici rifiuti urbani.

Alessandro Bardin

martedì 7 giugno 2011

Speciale Referendum 1 - L'acqua

I quesiti referendari riguardanti l'acqua sono 2.

Il primo riguarda l'affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Tra di essi c'è anche l'acqua. Chi non ha mai pensato, in una calda giornata di sole: “ora mi bevo un bel bicchiere di servizio pubblico locale di rilevanza economica?”

Se vince il SI, le decisioni sulla gestione dell'acqua saranno in mano alle amministrazioni locali (i comuni) che decideranno tra una gestione pubblica, privata o mista. I cittadini avranno maggiori possibilità, in caso di inefficienza e/o costo elevato del servizio, di rivolgersi al primo cittadino facendo valere direttamente le proprie ragioni.

Se vince il NO, la gestione dell'acqua rimarrà in mano a società che hanno un capitale privato di almeno il 40%.
Il mio basilico mi ha chiesto di evitare di dire che anche la pioggia è acqua. L'unico intermediario privato con il quale vuole avere a che fare è il sottovaso.

Il secondo quesito riguarda la remunerazione del capitale investito dal privato per la gestione dell'acqua pubblica.

Se vince il SI, il bene pubblico non sarà più soggetto a profitti.

Se vince il NO, l'azienda che investe sulle risorse idriche avrà un ritorno sul capitale investito pari al 7%. Ciò significa che io imprenditore gestisco la rete, faccio investimenti e il cittadino mi copre, con la bolletta, tutti i costi. Oltre a ciò avrò una percentuale fissa di profitto applicata ad un settore sostanzialmente privo di rischi. Anche se la linea non funziona prendo il 7%, se il cittadino non paga l'acqua, io privato gliela stacco. Un'ultima cifra: il rendimento dei titoli di Stato portoghesi, paese a rischio default, è al di sotto del 5%; a questo punto è meglio investire in acqua: capitale garantito e rendimento maggiore.

Marco Barbato


martedì 31 maggio 2011

Consigli per gli acquisti

Durante i mesi invernali faccio molta fatica ad avvicinarmi al banco della frutta di un supermercato.
La causa principale è l'invidia. L'invidia verso ciliegie e mirtilli, angurie e more. Questi vegetali dall'aspetto attraente provengono da paesi affascinanti come Cile, Argentina e Brasile. Hanno solcato oceani, visto paesaggi meravigliosi. Insomma se la sono goduta molto più di me. Mi innervosisco e per ripicca giro loro le spalle e non compro niente.
Questa irragionevole presa di posizione mi ha reso inconsapevolmente un consumatore responsabile. Un chilo di frutta proveniente dall'America meridionale, per arrivare sulle nostre tavole, compie un viaggio lungo tra gli 11 e i 12 mila chilometri e consuma dai 20 ai 22 chili di anidride carbonica e tra i 6 e i 7 chili di petrolio. Oltre al danno ambientale ne risente anche la qualità del prodotto. Per essere maturi al momento della vendita, i prodotti vengono colti acerbi e trattati con metodi particolari che garantiscano un perfetto impatto visivo al momento del contatto con la clientela, a scapito del sapore e dei valori nutrizionali.

Oltre al non consumare vi è un'altra possibilità: farlo in maniera critica e consapevole applicando, dove possibile, criteri di equità e solidarietà. Questa esigenza ha fatto nascere, nel 1994 a Fidenza, i Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) che nel 1996, quando viene pubblicata la Guida al Consumo Critico dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo, possono cominciare ad operare concretamente avendo a disposizione solide linee guida alle quali ispirarsi. La particolarità di questi gruppi di acquisto è la loro spontaneità: un gruppo di persone decide di procurarsi prodotti alimentari e materiali di largo consumo da produttori con determinate caratteristiche. Le più comuni sono la vicinanza al luogo dell'acquisto, il rispetto delle normative sul lavoro per i dipendenti delle imprese, la riduzione degli imballaggi o l'utilizzo di materiali riciclabili.

E interessante notare soprattutto che è un sistema che permette a tutti gli attori economici coinvolti nella transazione un miglioramento della propria situazione. Il consumatore acquista prodotti di qualità comprovata a prezzi ragionevoli, rispettando l'ambiente e la dignità del lavoro. Il produttore vende solo quello che può produrre, riduce i propri costi per ciò che riguarda il trasporto e l'intermediazione e può applicare una tariffa che gli permette di essere concorrenziale ma nello stesso tempo di proseguire nel proprio lavoro, fare investimenti e aumentare il profitto.

Entrare in un GAS è solitamente gratuito e internet è il mezzo migliore per potersi informare in maniera più approfondita. Da qualche mese anche io faccio parte di un gruppo di acquisto. Nonostante sia un gruppo nato spontaneamente le comunicazioni sono puntuali e precise e vi è grande organizzazione. Tutto avviene attraverso la posta elettronica anche se c'è la possibilità di partecipare direttamente ad incontri. Sei libero di acquistare o di non acquistare in base ai prezzi e ai prodotti disponibili quella settimana.

Se siete riusciti ad arrivare in fondo a questo articolo, oltre a ringraziarvi, vi chiedo un piccolo favore: cercate il GAS più vicino a casa vostra e se ne avete voglia mettetevi in contatto con i responsabili del gruppo. Nel frattempo io mi mangio una ciliegia.

Marco Barbato

giovedì 19 maggio 2011

Un regalo per i lettori

Due settimane dall’apertura del blog-rivista, e già abbiamo raggiunto l’imponente vetta delle 700 visite. Siamo commossi! Tanta attenzione ci riempie di speranze e di entusiasmo.
La nostra volontà è quella di fare sempre meglio, contando anche su di voi per contributi e collaborazioni. Infatti, senza i lettori, non avrebbe alcun senso il nostro impegno. Perciò vi ringraziamo, facendovi un piccolo omaggio: un gustoso sonetto del Belli sul tema della verità. Vale davvero la pena di leggerlo!
Il liceo ha consegnato a molti giovani un’idea della poesia piuttosto univoca. Ma in realtà quella voce languida e decadente, fatta di “sepolcri” e “amori” spiati dal buco della serratura, è solo una parte del variegato coro della poesia. Esiste tutta una tradizione corposa e vitale, che riesce ad essere profonda senza troppa filosofia. Da Cecco Angiolieri a Franco Loi, che apre una sua raccolta con un significativo:
La lengua l’è de Diu, rassa de troj! / Parlì cume magnì, e andì a cagà
(La lingua è di Dio, razza di t****/ Parlate come mangiate, e andate a c******).
Il sonetto del Belli che vi proponiamo, ne è un esempio.

Buona lettura!
(Alessandro Bardin e la redazione de Il Demoderato)

La vertità      (Giuseppe Gioachino Belli – 1791-1863)

La verità è com’è la cacarella,
che quanno te viè l’impito e te scappa
hai tempo[1], fija, de serrà la chiappa
e stòrcete e tremà pe ritenella.

E accussì, si la bocca nun z’attappa[2],
la Santa Verità sbrodolarella[3]
t’esce fora da sé da le budella,
fussi tu puro[4] un frate de la Trappa[5].

Perché s’ha da stà zitti, o di una miffa[6]
ogni quarvorta sò[7] le cose vere?
No: a temp’e loco d’aggriffà s’aggriffa[8].

Le bocche nostre Iddio le vò sincere,
e l’omini je metteno l’abbiffa[9]?
No: sempre verità; sempre er dovere.


[1] Hai un bel da fare ecc…

[2] Si tappa

[3] Sgocciolante

[4] Pure, perfino

[5] Che ha voto di silenzio

[6] Menzogna

[7] Sono

[8] “Aggriffare” è tirare una palla da terra per farla cadere esattamente in un punto preciso senza che rotoli;

[9] Il sigillo

sabato 14 maggio 2011

La faccia del vicino è sempre più verde…

L’ultimo lupo delle montagne comasche è stato ucciso il 3 febbraio 1879, presso Trevano. L’estromissione della natura era solo all’inizio.
L’opposizione che vuole il progresso in costante conflitto con l’ambiente nella lotta per lo spazio e per la sopravvivenza fa parte di una mentalità ormai superata. Il progresso, se vuole davvero essere tale, deve andare di pari passo con una valorizzazione estetica dell’ambiente in cui la comunità si trova a vivere.
La bellezza di una città non è solo un motivo di vanto o una “merce” per turisti. È un fattore fondamentale per il benessere psico-fisico dei suoi abitanti. Il grado di civiltà di una popolazione si misura dall’estetica e dalla vivibilità del comune d’appartenenza.  Come diceva il poeta greco Simonide: “La città è la maestra dell’uomo”. Uomo e ambiente si influenzano reciprocamente.
Vediamo in dettaglio alcuni particolari su Como:
Il “marrone” pubblico 
Como, nel tempo, s’è imbruttita come una donna invecchiata presto e male. Il verde, essenziale per mantenere spazi di vivibilità, è ridotto al minimo. Secondo i dati occupa il 2,2% della superficie (meno di 10 m² ad abitante), ed è in tali condizioni, senza varianti, da prima del 2000.  
Autosilo, auto, code e parcheggi
Qualcosa di malsano, a parer mio, spinge una città ad erigere un autosilo in centro, e per di più su un sito archeologico. Nonostante il progetto abbia ottenuto i permessi necessari, è la logica a stupire. Invece di decentrare il traffico privato , incentivando quello pubblico, a Como si fa l’inverso.
Le linee degli autobus hanno subito notevoli tagli: 77 corse urbane e 93 extraurbane (le linee 9, 10 e parzialmente la 8) sono sparite, a fronte di aumento del 10% del tariffario. Anche Ferrovie Nord, famosa per le continue lamentele dei pendolari, ha deciso di alzare i prezzi del biglietto del 15,2%, e dell’abbonamento del 12,3%.
Un tempo c’erano i tram… qualche mente illuminata li ha dichiarati obsoleti e li ha smantellati.
La auto, poi, fanno comodo a molti comuni: sono fonte di multe e pedaggi che ingrassano i bilanci. Così Como si trasforma pian piano in un vasto parcheggio a pagamento da cui attingere denaro (da qui gli aumenti sulle tariffe delle soste che, a seconda delle zone, vanno dal 10 al 25%).
E pensare che per andare da una parte all’altra di Como si impiegano dai 30 ai 40 minuti a piedi!
Cemento e case
La cementificazione non si arresta. Ci piace proprio! Nella città di Como si arriva al 54,6% di copertura della superficie (il record è di Campione d’Italia con l’83,4%; al terzo posto Grandate con il 75%). In questi giorni sulla collina di Garzola si notano un susseguirsi di gru e di cantieri.
Le case, poi, si costruiscono con criteri antiquati. La maggior parte sono più simili a cubi di cemento che ad abitazioni.
Caliamo un velo pietoso sulla vicenda del povero Cedro che campeggiava davanti al teatro Sociale... "ucciso" a oltre 60 anni di età per lasciare spazio ad una piazza in "stile unione sovietica", nonostante i numerosi appelli dei cittadini (ignorati, come spesso accade).
Lago
Il povero lago è davvero messo male. Dopo il muro, geniale sotto tutti i punti di vista (economico e ambientale), ecco una bella notizia da Legambiente: è il più inquinato d’Italia, con 65% dei campioni fuori dai limiti, di cui il 35% in modo grave. Questo è causato da una non completa depurazione.
In sintesi…
Como precipita al 78esimo posto delle città italiane per l’attenzione all’eco-compatibilità (Milano si trova al 13esimo).
Per fortuna voci come "cultura, culinaria, tempo libero" e molte altre forme di vita (vera) di una città non sono calcolate...

Alessandro Bardin

lunedì 9 maggio 2011

Milano e gli studenti "fuorisede"

I fuori sede iscritti negli atenei italiani sono oltre 700 mila, su un totale di 1 milione e 800 mila universitari. I più numerosi sono a Roma, 100 mila, e  Milano, circa 80 mila (nella sola “Statale” il 55 % degli studenti, circa 30 mila, non risiede né in Lombardia né nella provincia ).
Per contenere il problema il ministero dell’istruzione mette a disposizione circa 46 mila alloggi in strutture convenzionate ( residenze, collegi e studentati) : il rapporto  è di 1 a 15, per ogni studente che trova posto ne corrispondono altri 14 che devono cercare ospitalità altrove. 
A Milano, fra  residenze CIDIS e studentati delle università private (come ad esempio la Bocconi) si hanno a disposizione all’incirca 2000 posti letto, (poco più del 2 % delle richieste) quindi gran parte dei “fuorisede” deve arrangiarsi e cercare casa in maniera autonoma.
Mentre il mercato mobiliare a Milano ristagna, i prezzi delle case per gli studenti non diminuiscono, anzi secondo i dati  del SUNIA (sindacato unitario nazionale inquilini ed assegnatari) sono aumentate del 10 %: si va a “sborsare” dai 400 ai 600 euro per una stanza singola e dai 250 ai 400 euro per una stanza doppia.

Laura Mariani, del centro studi SUNIA,  spiega che non è facile stimare il giro d’affari : nel capoluogo lombardo il 50 % dei proprietari affitta in nero e un altro 25 % fa un contratto regolare e registrato, ma dichiara una cifra inferiore a quella che effettivamente percepisce. I dati del sindacato inquilini parlano di un monte affitti in nero di 1,5 miliardi di euro annui.
            La legge 296 del 27 dicembre 2006 stabilisce condizioni d’affitto per studenti fuori sede e prevede un contratto della durata di 6-36 mesi, con agevolazioni fiscali per la famiglia dell’universitario o per lo studente lavoratore, ma soprattutto per il proprietario. Anche il canone è fissato in un massimo che varia a seconda della città, della metratura,e della zona. Sono i comuni poi a decidere le fasce di prezzo sulla base di accordi specifici. I “paletti legislativi” possono però essere aggirati con gli affitti pagati in nero, e a questo proposito si registra  un aumento dei prezzi, nonostante la qualità delle abitazioni sia peggiorata. Le sistemazioni un po’ arrangiate, un tempo a buon mercato, ora costano come le altre, e  aumenta il numero di ragazzi che coabitano in spazi stretti, facendo aumentare i guadagni per i proprietari

La situazione è destinata a peggiorare visto che ai numeri citati in precedenza va aggiunta anche la nuova categoria sociale emergente degli stagisti non retribuiti, giovani ragazzi neo laureati senza stipendio alla ricerca di affitti a poco prezzo.
L’amministrazione di Milano ha previsto entro il 2014 circa mille e ottocento posti in più nelle residenze apposite, ma considerata l’attesa “invasione barbarica”, gli sforzi non sono sufficienti. E’ necessario  un impegno maggiore che vada anche a difendere la dignità dei giovani e degli studenti, ormai diventati maestri nell’arte dell’adattarsi a condizioni abitative sotto la media.

[Q]

Fonti: SUNIA (tutti i dati sugli studenti fuori sede e sui prezzi medi degli appartamenti); COMUNE DI MILANO (residenze in funzione e quelle previste.), CIDIS (numero posti letto  residenze)e la legge 296 (regolamentazione affitti).

giovedì 5 maggio 2011

Storia di un agnello

Escalaplano è un paese di 2600 anime situato nell'entroterra sardo, tra le province di Cagliari e dell'Ogliastra. Nel 2003, in un ovile come tanti, viene alla luce un agnello che si vuole distinguere. Perché essere una pecora normale in mezzo ad altre pecore normali? No, non fa per lui. Si spinge oltre. Non gli basta un nome di battesimo o un simpatico nastro colorato al collo con un campanellino. Non vuole suscitare tenerezza. Vuole attirare l'attenzione. Vuole che la sua vita abbia un significato. Come fare? Semplice, deve essere unico, inconfondibile: decide così di nascere con due teste.

Quello che l'agnello non sapeva è che si trovava in un'area speciale. Alla fine degli anni ottanta, ad Escalaplano, nascono 14 bambini con gravi malformazioni fisiche. Si parla di casi di ermafroditismo, di bimbi senza apparato digerente, privi di cervello, senza dita agli arti, di neonati con la bocca attaccata all'orecchio. Nella frazione di Quirra, 150 abitanti, 11 morti e 20 casi di tumore. Nella zona di Villaputzu, su una popolazione di 3000 abitanti, sono 16 i casi di leucemia fulminante. Questi sono solo una parte dei numerosi casi di morti sospette nella zona. Secondo Antonio Pili, medico pneumologo ed ex sindaco di Villaputzu, il tasso di tumori e linfomi nella zona è cresciuto del 28% tra gli uomini e del 12% tra le donne.

Ciò che accomuna questi paesi è il trovarsi ai confini del Poligono Sperimentale e di Addestramento Interforze, base italiana nata nel 1956. Essa è utilizzata per la sperimentazione e messa a punto di velivoli, missili, razzi e radiobersagli.
La domanda degli abitanti del luogo, colpiti da lutti e tragedie, è sempre stata questa: è possibile che all'interno dell'area militare vengano utilizzate sostanze nocive alla salute umana e animale? Le esplosioni sono numerose, le nuvole di fumo sono dense, sospette, maleodoranti.

E' in questo frangente che l'agnello, che aveva voluto essere diverso, mette a segno il suo colpo. Non si rassegnava ancora ad essere uno tra i tanti. Il giovane corpo, alla sua morte, viene analizzato da numerosi centri di ricerca. Il Professor Zucchetti, a fine anni 2000, viene a sapere che l'esito degli esami effettuati in un centro specializzato di Bologna non era stato ritirato da privati per l'elevato costo: 2800 euro. Questo centro era l'unico, fra gli altri, che aveva la possibilità di rilevare la presenza di alcune componenti dannose alla salute. La Procura di Lanusei decide di ritirare il referto e di inserirlo in uno dei numerosi fascicoli di indagine. Da esso la svolta: l'agnello era davvero speciale. Le sue ossa presentavano tracce di uranio impoverito, sostanza non presente in natura, scarto della lavorazione dell'uranio naturale. Sostanza in grado di modificare “la struttura elicoidale del dna animale e di provocare alterazioni cellulari e tumori”.

E' la prova che mancava. E' la dimostrazione che in quella zona qualcuno ha utilizzato sostanze altamente nocive per la salute umana. Grazie a ciò il Pm Fiordalisi è riuscito ad ottenere dai familiari il permesso di riesumare 19 corpi, deceduti per malattie similari nell'area confinante con la base militare. Le salme verranno analizzati in cerca di risposte.

Seguirò la vicenda e vi terrò aggiornati.

Marco Barbato