mercoledì 26 ottobre 2011

Chi ha paura del Lavoro Nero?


Quando si è piccoli talvolta si subisce il benevolo terrorismo psicologico da parte dei parenti più stretti: “Mangia, altrimenti arriva l'Uomo Nero!”, “Se non vai subito a dormire chiamo l'Uomo Nero!”. Dopo anni di ricerche in armadi, dopo aver perlustrato ogni palmo di superficie nascosta della mia camera, ho capito che la presenza malefica che mi terrorizzava o non gradisce la mia compagnia o, come fanno molti, viene in Italia solo per fare le ferie.
Ho passato così la mia giovinezza serenamente e ho studiato. Ho studiato più di quanto pensassi. Mi sono affacciato alla vita. All'improvviso però è cambiato tutto e le mie paure sono prepotentemente ritornate. Dal mio armadio e da sotto il letto sono spuntate due figure misteriose e affascinanti. La prima ha detto di chiamarsi Lavoro Nero. Mi ha offerto soldi, soldi e basta. La seconda più timida, magari anche perchè straniera. Ha detto di chiamarsi Stage e mi ha offerto esperienza, conoscenze e anche una piccola somma di denaro. Entrambe mi hanno fatto promesse, mi hanno fatto pregustare l'indipendenza economica grazie ad un lavoro ben retribuito e soddisfacente. Ho ceduto alle lusinghe, lo ammetto. Mi sono fatto convincere dai soldi e dalla possibilità di costruirmi un futuro. Sono stato uno stolto.
In seguito ho scoperto che questi due personaggi mi hanno fornito false generalità.

Lavoro Nero non è altro che Lavoro Irregolare. Ho indagato e scoperto diverse cose sgradevoli.
Egli ha violato diverse prescrizioni legali quali l'evasione completa o parziale delle tasse di diritto pubblico, non registra le proprie vittime agli Istituti Previdenziali (INPS, INAIL, ENPALS, ecc.) e oltre ad eludere il diritto fiscale, elude il diritto delle assicurazioni sociali, il diritto della concorrenza e il diritto in materia di stranieri.
Ho scoperto inoltre che è stato, di rado, anche condannato al pagamento di pene pecuniarie. La legge n. 248 del 2006, in particolare all’art. 36 bis “Misure urgenti per il contrasto del lavoro nero e per la promozione della sicurezza nei luoghi di lavoro”, prevede una sanzione amministrativa dai 1.500 ai 12.000 Euro se egli viene colto in flagranza di reato, con una maggiorazione di 150 Euro per ogni giorno effettivo e provato nel quale Lavoro Irregolare ha praticato le sue funzioni truffaldine.
Io comunque l'ho visto attivo e in buona salute. Evidentemente se la passa bene e nessuno è interessato al suo operato.
Stage invece ha diverse identità. Io la prima volta ho conosciuto quella francese. Egli è tutelato dalla legge transalpina e prevede una retribuzione stabilita al 30% del salario minimo applicabile sull'orario di lavoro settimanale di 35 ore (lunedi-venerdi) per un importo di 417,09 Euro al mese. Ho preso un appuntamento con Stage e mi si è presentato Tirocinio Formativo, quello italiano. Si sfregava le mani. Mi ha detto: “Se vuoi puoi venire con me. In teoria devi fare queste ore ma non ti posso assicurare nulla. In teoria dovresti avere queste mansioni, ma sai le esigenze aziendali... in teoria dovresti prendere questi soldi ma non so se e quando potrò darteli. Accontentati, devi fare esperienza. Ah una cosa. Se non vuoi non ti preoccupare. Ho sotto mano un elenco di migliaia di persone. Sai di chi parlo. Morti di fame, di futuro e indipendenza economica come te. Per me sei solo un numero, quindi se non te la senti nessun rancore. Un'ultima cosa. Sono tutelato dalla legge perchè la legge in realtà è poco chiara e addirittura non pretende quasi nulla da me. Se per caso volessi far valere i tuoi pochi diritti sappi che conosco persone che mi proteggono e mi proteggeranno da qualsiasi tuo tentativo di avere giustizia.”
Tirocinio Formativo aveva ragione. Ho accettato di seguirlo. Difficilmente incontrerò persone così sincere nella mia vita.

Marco Barbato

domenica 16 ottobre 2011

La Grande Crisi: i Perdenti. . .

In Italia e in Europa suona la sirena del Giorno del Giudizio. “A meno che non sia rimbambito, non suonava da quasi tre anni, ormai”. La geniale gag di Nonno Simpson è perfetta per sdrammatizzare l’attuale situazione, ed offre altresì lo spunto per inquadrare i recenti sviluppi economico-sociali in un contesto di lungo periodo. Prima di nascondere i risparmi sotto il cuscino e contare i giorni che mancano al 21 dicembre del 2012, è infatti utile ricordare che non siamo di fronte alla prima grande crisi internazionale, e che queste storicamente portano a grandi trasformazioni politiche, economiche e sociali, alla redistribuzione di ricchezza e potere tra i vari paesi del mondo e alla nascita di nuovi equilibri sistemici. In altre parole, ogni crisi si conclude sempre con dei vincitori e dei perdenti. Dal nostro punto di vista, il problema è che stavolta l’Occidente è il principale candidato a far parte della seconda categoria.
La crisi esplosa in seguito al crollo del settore immobiliare statunitense nel 2008 ha raggiunto un nuovo picco con la tempesta finanziaria abbattutasi quest’estate sull’economia europea. Per la prima volta sono emersi dubbi circa la sopravvivenza dell’Unione Europea e della moneta unica, e per riportare i bilanci sotto controllo quasi tutti i paesi dell’eurozona sono stati costretti a ricorrere a misure di emergenza, basate su consistenti tagli alla spesa pubblica, privatizzazione di numerose attività e servizi, riduzione degli stipendi dei dipendenti pubblici e aumento delle tasse. Ciò ha scatenando le proteste dei giovani, tra i più penalizzati da tali misure, che a milioni hanno occupato le piazze di Londra e Atene fino a Madrid. Fuori dall’Europa, la crisi ha messo in discussione persino la leadership economica mondiale degli Stati Uniti, le cui perduranti difficoltà vanno ben oltre il discutibile declassamento del debito ad opera dell’ancor più discutile agenzia di rating Standard & Poor’s.
Se sui media (tranne Rai e Mediaset) è possibile trovare autorevoli analisi sulle cause strutturali della crisi, lo stesso non si può però dire per gli avvertimenti lanciati dai tanti esperti convinti che le misure adottate non faranno che peggiorare la situazione. Ciò è tanto più incomprensibile laddove si consideri che il fallimento di programmi che impongono grandissimi sacrifici a milioni di cittadini farebbe sprofondare l’economia in una crisi ancor più grave, e il probabile rafforzamento delle misure di austerità rischia di far esplodere rivolte sociali in tutto il continente. Non è fantapolitica, visto che gli scontri ad Atene e a Londra di questa estate hanno mostrato ciò che potrebbe accadere in futuro. Il fatto è che l’allarme sembra giustificato: le misure anticrisi sono state elaborate dalla Banca Centrale Europea e dal Fondo Monetario Internazionale, ovvero due istituti accomunati dalla funzione di assicurare la stabilità finanziaria, indipendentemente dalla crescita economica, che è il vero motore della creazione di posti di lavoro. 
È vero che la crisi europea nasce dalla sfiducia dei mercati internazionali in merito alla capacità della Grecia, l’Irlanda, il Portogallo e l’Italia di sostenere il peso del proprio debito pubblico, ragion per cui la tenuta del fragile equilibrio dipende dalla solvibilità di questi paesi. Allo stesso tempo, però, i tagli e le misure di austerità, se non accompagnate da norme che salvaguardino gli investimenti e alcune essenziali forme di tutela sociale, finiranno per disincentivare le attività imprenditoriali e i consumi delle famiglie. Dal momento che la riduzione della spesa pubblica impedirà agli Stati di sostituirsi alle prime e di sostenere i secondi, il risultato sarà un ciclo depressivo, che condannerà l’Europa a una lunga fase di recessione.
L’attenzione si sposta dunque sulle soluzioni proposte per affrontare questa situazione, e da questo punto di vista arrivano segnali poco incoraggianti. Negli Stati Uniti Obama ha annunciato un piano da 447 miliardi di dollari per il rilancio dell’economia, basato su un mix di tagli alle spese e di aumento della tassazione per i redditi elevati. Tuttavia, l’opposizione del Congresso controllato dai Repubblicani e la prossimità delle elezioni Presidenziali lasciano aperto più di un dubbio circa la reale implementazione di un progetto così ambizioso. Dalle primarie del Partito Repubblicano stanno infatti emergendo il governatore del Texas Rick Perry e, soprattutto, Michelle Bachmann, esponente di quel Tea Party secondo cui la crisi è dovuta ai limiti alle libere attività economiche imposti dall’eccessiva presenza dello Stato, per cui la soluzione è una ulteriore riduzione dell’intervento pubblico e un deciso taglio delle tasse ai redditi alti. 
Nel quadro dell’interdipendenza economica globale, ciò che accade negli Stati Uniti ci interessa ancor di più se si considera che tali teorie si sono diffuse anche in Europa, seppur non tanto negli estremistici principi economici, quanto negli aspetti socio-culturali, fondati su una politica della paura e della promozione di ordine e sicurezza, di cui fanno le spese le fasce più a rischio della popolazione, dai lavoratori agli immigrati. Gli scandali di corruzione, che hanno minato la credibilità delle forze politiche tradizionali, hanno aperto la strada al successo dei movimenti xenofobi di destra in tutta Europa, e l’apatia della sinistra, incapace almeno dai tempi di Tony Blair di proporre un modello di convivenza e sviluppo alternativo, sta facendo il resto. In pratica, di fronte al fallimento politico, economico e socio-culturale di 30 anni di gestione ispirata ai principi neoliberisti della scuola di Chicago, che hanno mostrato la natura canaglia di un capitalismo libero da ogni forma di controllo e regolamentazione, la risposta che si sta facendo strada è quella che propone ancor meno regole e solidarietà.
 
I principali governi europei, in primis quello tedesco che si oppone strenuamente alla creazione di meccanismi di gestione comunitaria della crisi, non sono di aiuto. Eppure proprio il rilancio del processo di integrazione, che rimedi alla creazione di una moneta comune senza la previsione di un governo unico dell’economia, sembra in questo momento l’unica via di uscita. Un’Europa politica che sia in grado di elaborare una strategia di crescita nel quadro di un sistema di welfare comunitario, che preveda la gestione congiunta delle crisi e ne rimuova le cause strutturale stabilendo meccanismi di regolamentazione finanziaria. Un’Europa che superi il deficit di legittimità democratica e sia finalmente capace di generare un senso di identificazione tra i suoi cittadini. Non si tratta certamente di un percorso facile, tuttavia vale la pena ricordare che la dimenticata Strategia di Lisbona ha fissato più di dieci anni fa i principi sui quali dovrebbe basarsi un competitivo sistema di welfare comunitario, e che le grandi crisi offrono storicamente le migliori opportunità per avviare i cambiamenti epocali. Un consiglio per la sinistra europea: se l’Europa è stata l’intuizione di una illuminata elite conservatrice, intenzionata a impedire nuove guerre tra i paesi del continente, la spinta per la definitiva integrazione politica e sociale potrebbe rappresentare la frontiera e l’obiettivo capace di rilanciare le nostre agonizzanti forze progressiste.

Carlo Marcotulli

sabato 1 ottobre 2011

Il primo Personal Computer e l’inizio della fine

Siamo in crisi… lo sappiamo tutti. Ormai ovunque si scrive di questo paese stagnante, senza crescita, sempre più indebitato, incapace di reagire.
Non c’è da stupirsi. L’Italia ricorda un vecchio artritico: immobile e privo di interesse per il futuro. Chi ne ha la possibilità accaparra non tenendo conto dello sviluppo della nazione. D’altra parte, si sa, ci sono i “Pochi” che spremono la vacca grassa finché non stramazza a terra sfinita. La vacca grassa siamo noi.
Questo sistema non è nuovo: va avanti con continuità da molti decenni. È quasi consolante nella sua costanza. Vediamo un esempio: la storia di una grande azienda distrutta da un atteggiamento che, per non essere volgare, definirò soltanto “miope”. Ovviamente, non è solo il fallimento di un "marchio", è anche il fallimento del sistema di questo paese.
L’Olivetti nasce il 29 ottobre 1908 e quasi da subito si impone sul mercato per le celebri macchine da scrivere. Quarant’anni più tardi produce la Divisumma-14, la prima calcolatrice scrivente che sancisce l’inizio dei grandi successi dell’azienda. Ma la vera svolta arriva sotto la guida di un illuminato Adriano Olivetti (figlio del fondatore). Ed è una storia curiosa, che oggi ha un vago sapore di eccentricità (limitatamente all’Italia, in quanto all’estero sarebbe nella norma). Che cosa combina questo imprenditore un po’ folle? Mette un annuncio sul giornale alla ricerca di “fisici, ingegneri, matematici e tecnici”; insomma, tutti quei laureati che oggi non riescono a impiegarsi nemmeno come bidelli. 
Con un atto estroso decide di assumerli e pagarli (atteggiamento che sembra sancire l’inevitabile fine di ogni impresa contemporanea), collaborando inizialmente con l’Università di Pisa. D’altra parte Olivetti è già famoso per il trattamento anomalo dei suoi dipendenti: «La fabbrica di Ivrea è moderna e spaziosa. Una delle peculiarità dei fabbricati è la massiccia utilizzazione del vetro, voluta dallo stesso Olivetti affinché gli operai che vi lavorano, spesso strappati al mondo rurale, possano continuare a sentirsi a contatto con la natura e avvertirsi come parte del paesaggio, circondati e avvolti dalla luce. I dipendenti Olivetti godono di benefici eccezionali per l’epoca: i salari sono superiori del 20% della base contrattuale, oltre al salario indiretto costituito dai servizi sociali, le donne hanno nove mesi di maternità retribuita (quasi il doppio di quanti ne hanno oggi, per intenderci) e il sabato viene lasciato libero, prima ancora di ogni contrattazione sindacale. L'orario di lavoro viene ridotto da 48 a 45 ore settimanali, a parità di salario, in anticipo sui contratti nazionali di lavoro.» (da www.lastoriasiamonoi.rai.it)
Ci sono già troppe cose che sorprendono, senza contare gli affreschi di Guttuso e i concerti di Luigi Nono: gente con un contratto di lavoro e uno stipendio; rapporto università-lavoro; assunzione di perfetti sconosciuti. Ma non è finita! Ciò che più lascia sconvolti, è che Adriano Olivetti aveva un’idea… altro aspetto dell’industria che ha fatto la stessa fine del Dodo e della satira: si è estinto. Credeva che l’elettronica fosse il futuro, perciò ha deciso di investire (parola tabù) tempo e risorse su questa sua idea. Per il dinamismo, la lungimiranza e il circolo di intellettuali che la frequentavano, la Olivetti venne definita la “Atene degli anni Cinquanta”.
C'è da chiedersi se un simile comportamento l'abbia portato al fallimento. La risposta è: no. E qualcuno dovrebbe stupirsene.Grazie al suo team, guidato da Mario Tchou, l’Olivetti elabora, disegna e produce l’Elea 9003, il primo calcolatore elettronico completamente a transistor, presentato alla Fiera di Milano nel 1959. È un successone. Si tratta di un sistema innovativo (persino nel design) che garantisce l’espansione sul mercato internazionale dell’azienda.
Una frase di Tchou meriterebbe di essere scolpita in quei gerontocomi che sono Parlamento e Senato: «Le cose nuove si fanno solo con i giovani. Solo i giovani ci si buttano dentro con entusiasmo, e collaborano in armonia senza personalismi e senza gli ostacoli derivanti da una mentalità consuetudinaria».
Una serie di sventure mette in crisi l’Olivetti: nel 1960 muore Adriano e la crisi generale aggrava la situazione finanziaria (resa ancora più difficile da dissidi familiari).
Viene così il momento per l’intervento dall’esterno: l’Italia ci mette la zampa, come un re Mida al contrario… Lo Stato (cioè i partiti, soprattutto la DC) pensa bene che non valga la pena sostenere l’Olivetti. Entrano allora in scena i grandi imprenditori con il Gruppo d’intervento, formato da: Fiat, Pirelli, Mediobanca, IMI, La Centrale.
Memorabili rimarranno nella storia le parole di Vittorio Valletta (presidente Fiat e poi senatore a vita): “La società di Ivrea è strutturalmente solida, sul suo futuro pende però una minaccia, un neo da estirpare: l’essersi inserita nel settore elettronico”. È così che il reparto più produttivo e innovativo della Olivetti viene venduto alla General Electric.
Non è finita. Nel 1965, quel 25% della Divisione Elettronica ancora di proprietà italiana presenta il Programma 101, che non è nient’altro che il primo personal computer, in anticipo di circa un decennio sul resto del mondo. Alla fiera di New York del 65 il P101 dovette essere “nascosto” in quanto al reparto italiano era di competenza solo la “piccola elettronica”.
La nuova guida dell’azienda non ne capì le potenzialità. E pare fossero gli unici, considerata la folla che prese letteralmente d'assalto lo stand della Olivetti e che costrinse gli organizzatori della fiera a ridisegnare tutti gli spazi assegnati.
La General Electric prese il restante 25% dell’azienda. L’Italia salutò così un settore poco proficuo e senza futuro come quello dell’informatica…
Fine della favola.

Alessandro Bardin