lunedì 20 febbraio 2012

La finanza delle opinioni

La crisi finanziaria che ci accompagna ormai da diversi anni ci ha reso migliori, più consapevoli: abbiamo scoperto alcuni vocaboli della lingua inglese capaci di incutere terrore. Al bar si parla di spread, il parrucchiere ci consiglia il bond sul quale investire il nostro denaro e la notte, prima di dormire, preghiamo perchè il default non ci sorprenda all'improvviso.
Ma i termini sopracitati sarebbero privi di carica emotiva se non vi fosse il rating. Il vocabolario ci aiuta definendolo valutazione. Questa valutazione è espressa da 3 agenzie americane che hanno una sorta di monopolio della verità, sono insomma degli oracoli dei nostri giorni: Standard & Poor's, Moody's e Fitch. In alcune interviste rilasciate ai media americani i membri delle tre agenzie hanno “declassato” il concetto di rating da giudizio/valutazione a semplice opinione.
Le agenzie agiscono come dei perfetti amici: dicono agli Stati e alle imprese se si stanno comportando più o meno bene da un punto di vista economico-finanziario. Essendo anche e soprattutto società a scopo di lucro, alle agenzie in questione vengono commissionate delle opinioni: un'azienda chiede di essere valutata in cambio di un compenso economico. La società in questione ottiene il responso e decide di tenerlo o meno segreto in base all'impatto che esso potrà avere sui mercati. Qui sorge un primo dubbio: io chiedo a un amico cosa pensa di me e lui esprime serenamente il suo pensiero. Se io però lo pago siamo sicuri che sarà sincero?
In questo meccanismo apparentemente semplice, anche se un po' nebuloso, si inseriscono dei regolamenti nazionali e sovranazionali che impongono alle società di non avere investimenti in situazioni che siano a rischio, cioè che abbiano un rating sotto standard predeterminati. Un secondo punto di interesse che fa sorgere ulteriori dubbi sulla natura di queste opinioni riguarda i fatturati delle agenzie di rating dal 2003 al 2007: Moody's, ad esempio, ha quadruplicato i propri profitti in piena crisi e anche le altre due agenzie di rating si sono difese molto bene.
Nel calderone di regolamenti e fatti ne voglio aggiungere un altro. In questi anni abbiamo assistito a numerosi fallimenti e salvataggi da parte degli stati di società leader nei propri settori: Lehman Brothers, colosso delle banche di investimento, è fallita trascinando nel baratro l'economia americana; AIG, 190 mld di dollari di capitalizzazione nel 2006, è stata salvata dal fallimento dai contribuenti americani. Stesso destino hanno avuto Freddie Mac e Fannie Mae, società di riferimento del mondo dei mutui americani. In Italia abbiamo avuto il fallimento Parmalat che ha creato un buco da 14 mld di Euro, il più grande della storia europea. Comune denominatore di queste tragedie finanziarie sono stati i giudizi costantemente positivi da parte delle agenzie di rating, anche nei giorni precedenti ai tracolli sopra elencati.
Standard & Poor's, Moody's e Fitch hanno mentito sulle opinioni espresse per condizionare il mercato globale? Hanno sfruttato informazioni riservate per aumentare a dismisura i propri profitti facendo partecipare alcuni amici al grande banchetto dei guadagni di borsa? Sono formate da professionisti disattenti o addirittura incompetenti che hanno portato milioni di risparmiatori sul lastrico? Mi metto nei panni delle agenzie di rating. Credo che tutto questo disastro sia dovuto alla normale stanchezza che inesorabile colpisce il potere assoluto, in questa caso il monopolio dell'opinione vincolante. E' uno stress insopportabile avere in mano i destini economici del mondo. Dovremmo ringraziare le persone che lavorano e decidono il nostro futuro perchè ci tolgono l'onere di pensare e ci lasciano l'onore di investire i nostri averi secondo i loro dettami. Capita a tutti di sbagliare, alla fine sono solo soldi e, come direbbe un vero amico, i soldi non fanno la felicità.

Marco Barbato

domenica 12 febbraio 2012

Federconsumatori vs Bpm

Venerdì 10 febbraio era l’anniversario della nascita di Bertold Brecht, il famoso drammaturgo che disse in tempi non sospetti  «il vero ladro non è chi rapina la banca, ma chi la fonda». Stando alle ultime vicende, pare non avesse tutti i torti.
È di questi giorni infatti la notizia ufficiale dell’avvio, da parte di Federconsumatori, di una class action contro la Banca popolare di Milano (Bpm). Gli avvocati dell’associazione hanno depositato l’atto al tribunale di Milano. Ora bisognerà aspettare la fine di aprile per la prima udienza sull’ammissibilità.
La vicenda è quella dei bond “convertendo”. Il titolo di debito, con scadenza 2013, fu lanciato ed emesso nel 2009 da Bpm e convertito in anticipo in azioni alla fine dello scorso anno. Il rendimento promesso era talmente elevato, il 6,75%, da convincere circa 15.000 clienti della banca ad acquistarlo, convinti effettivamente di fare un affare. Alla fine dell'anno appena trascorso però, la sorpresa. In seguito al crollo delle azioni della banca molti clienti avevano scoperto di aver perso moltissimo del loro capitale, alcuni addirittura fino al 90%.  Questo perché il titolo in questione non rappresentava una vera obbligazione, ma un derivato non negoziato in borsa, venduto agli interessati senza informazioni sulla sua reale natura e senza la necessaria consapevolezza del rischio a cui andavano incontro.
L’avvocato Massimo Cerniglia, uno dei curatori dei ricorsi per Federconsumatori, spiega che, oltre alla scarsa informazione, viene contestato alla banca la non corretta valutazione del profilo di rischio, non adatto a semplici risparmiatori. Inoltre, alcuni clienti si sono visti aumentare il profilo di rischio automaticamente, senza nessun avviso. Insomma, una vera e propria truffa.
Già a giugno del 2011 la Procura di Milano aveva aperto un fascicolo nei confronti di Bpm: per il momento non ci sono accuse vere e proprie nei confronti di nessuno. Però, a testimonianza dell'atteggiamento scorretto della banca nei confronti dei suoi clienti, c’è la sanzione di 175.000 euro che la Consob ha comminato al direttore generale della banca per non aver agito con la necessaria correttezza e trasparenza.
Ad avere espresso la volontà di adesione alla class action sono circa 400 persone, che potrebbero salire fino a 5 mila in caso di dichiarata ammissibilità dell’azione da parte del tribunale. In quel caso si parlerebbe probabilmente di richieste di risarcimento per svariati milioni. 
La prima udienza di ammissibilità sarà a fine aprile, da lì in poi, a seconda della sentenza, gli scenari saranno diversi.

Nel frattempo, buon compleanno Bertold Brecht.

[Q]

lunedì 6 febbraio 2012

Un caffè per due Nazioni

Ci sono alcune cose che, nonostante tutto, ancora amo dell’Italia e che amerò sempre: tra queste c’è il caffè. Che dire del profumo e del rumore con cui la moka riempie la cucina? Una meraviglia! Peccato che da qualche mese fare il caffè sia diventata una vera tortura. Qualcosa va storto: la caffettiera borbotta come un vecchio catarroso, il caffè non sale, e quando lo fa, è scuro come il petrolio, sa di bruciato ed è, a conti fatti, imbevibile…
Ricordo una moka (entrata ormai nella leggenda) che è stata nella mia cucina per quasi un ventennio e se n’è andata in pensione con tutti gli onori. Quelle che l’hanno seguita, però, non sono state all’altezza: ne ho cambiate tre in meno di sei mesi. La marca è sempre la stessa: Bialetti. Che cos’è cambiato allora? Nient’altro che il luogo di produzione.
Infatti Bialetti è una delle tante aziende italiane coinvolte in quel fenomeno che chiamano “delocalizzazione” e che consiste nel trasferimento di settori di produzione dall’Italia verso un paese dove tassazione e costo della manodopera permettono uno sviluppo impensabile se si restasse in Italia; nei casi meno fortunati, questa trasferta è addirittura obbligatoria per non chiudere i battenti.
Nel caso specifico della Bialetti (nata nel lontano 1919) la decisione è arrivata nell’aprile del 2010, quando ha annunciato la chiusura dello storico stabilimento di Omegna (Piemonte) mantenendo in Italia soltanto la parte relativa al design, al marketing e alla ricerca (conservando così anche il marchio “Made in Italy”). Le persone rimaste senza lavoro per questa manovra sono 120. A questo numero devono essere aggiunti tutti gli operai lasciati a casa a seguito della chiusura o delocalizzazione di numerose storiche aziende del territorio piemontese.
La moka Bialetti è stata per molto tempo un esempio della qualità e dell’abilità imprenditoriale italiana; quella di Alfonso Bialetti fu una trovata innovativa che rivoluzionò il modo di fare il caffè, unendo alla praticità il senso estetico (design Art Decò). Assistere al trasferimento della produzione di moke (che ha seguito quella di altri prodotti houseware dello stesso marchio) è davvero un po’ come assistere al crollo di Pompei.
Una domanda a questo punto è lecita: che effetto ha la delocalizzazione sull’Italia? Alcuni studi sostengono la sostanziale positività del sistema in quanto le aziende diventano più competitive, la manodopera “liberata” è flessibile in quanto non specializzata (infatti chi non lo cerca un operaio di 50/60 anni che nella vita ha fatto solo caffettiere?) e produce ricchezza anche nei paesi ospitanti. Altri vedono il rovescio della medaglia: senza l’industria non c’è sviluppo, i lavoratori “liberati” non si riciclano affatto (soprattutto se tutte le aziende espatriano), la ricchezza del territorio si affossa trascinando con sé quanto sta intorno. Per quanto riguarda il paese in cui si delocalizza, dopo una fase di aumento del benessere, è facile che le imprese spostino nuovamente la produzione qualora le richieste e il prezzo della manodopera smettono di essere “competitivi”.
Le uniche cose che appaiono con chiarezza in questo panorama sono le seguenti: la logica di produzione domina su tutto e tutti; il lavoro se ne va sempre più lontano; i lavoratori non sono tutelati; il governo guarda, un po’ stupito, come se non capisse o la cosa non lo riguardasse; e il mio caffè non ha più il sapore di una volta…

Alessandro Bardin