giovedì 29 marzo 2012

I bambini rom picchiano i bambini

Se avete cinque minuti di tempo andate a leggere una cosa. Il 20 aprile 2011 sul sito “Leggo Italia” viene pubblicato un articolo intitolato “Catanzaro, preso a pugni a sette anni da 2 bimbi rom”.  Riassumendo in breve la vicenda, si racconta di Cristian, ragazzino di sette anni ricoverato in ospedale dopo una lite avuta con alcuni suoi coetanei Rom. Il fatto è accaduto nell’istituto comprensivo di Casalinuovo, scuola posizionata nella periferia sud della città, fra i quartieri di Aranceto e Corvo. I genitori hanno deciso di fare causa alla scuola in quanto, al momento della lite, l’insegnante non era presente.
Ora, a tutti sarà capitato da piccoli di bisticciare con qualche vostro compagno, oppure di vedere coetanei picchiarsi e morsicarsi per facezie. Nessun giornale ha mai speso una riga su di voi o su vostri amici, giustamente. In questo caso si può pensare che, vista la gravità delle condizioni in cui versava il bambino, il fatto meritava alcune righe, quantomeno per sottolineare come la trascuratezza e la mancanza di vigilanza da parte di insegnanti e bidelli possa portare, in alcuni sfortunati episodi, a conseguenze gravi.

Ma l’articolo sembra avere altri obiettivi. L’autore (di cui è ignoto il nome)  si concentra sulla nazionalità dei due bimbi, specificando che: i rom spacciano, ed è diventato un problema per tutto il quartiere; i genitori rom dei bambini rom sono pregiudicati; a questo aggiungete la ripetizione diffusa della parola “rom”. La povertà e la condizione di insicurezza del quartiere, che in qualche modo si intravedono nell'articolo, sono però relazionate alla presenza degli zingari, i quali "spacciano, sono pregiudicati, hanno i figli che mandano all'ospedale i nostri bambini...". C'è un rapporto di causa effetto quindi fra la presenza di rom e il degrado.
Ma quindi, vi chiederete forse voi, la redazione di Leggo Italia è composta da xenofobi? Non credo, purtroppo la risposta però può essere altrettanto semplice: la paura, anche nel mondo della comunicazione, fa vendere copie e porta soldi. E sotto questo punto di vista, “gli zingari” sono un vera e propria miniera di soldi.

[Q]

lunedì 12 marzo 2012

La via per uscire dalla crisi: una ricetta dall’Islanda

A furia di ripetercelo, anche noi ci siamo convinti che in una situazione di crisi generale (e mondiale) la cosa più giusta da fare è seguire la via dell’austerity greca, cioé spalmare il debito sulla popolazione, allungare la manina nelle tasche della gente che, a conti fatti, non ha neanche ben capito da dove arrivi questa crisi.
Quello dell’Islanda potrebbe essere un buon esempio per mostrare come le cose non stanno necessariamente come si dice. Peccato che i telegiornali e i principali quotidiani non ne abbiano praticamente parlato. Ecco allora in breve la storia.
L’Islanda, come molti paese europei, è uscita da un lungo periodo di crescita economica (durato 15 anni) che l’aveva portata ad essere tra le nazioni più ricche al mondo. Seguendo fedelmente un modello economico di “neoliberalismo puro”, nel 2001 prese il via un processo di privatizzazione delle banche. Queste, per attirare investimenti stranieri, puntarono su un programma denominato IcsSave che prevedeva conti online con cui era possibile abbassare i costi di gestione e aumentare i tassi di interesse.
A farsi attirare da questo sistema furono soprattutto i “vicini” inglesi e olandesi. Se in principio questo sistema portò a un generale aumento del capitale, sul lungo periodo provocò anche un aumento del debito estero che nel 2007 raggiunse una cifra pari al 900% del PIL nazionale. La crisi dei mutui subprime (2008) coinvolse anche le banche islandesi, facendo precipitare la situazione; Landbanki, Kapthing e Glitnir, le tre maggiori banche dell’Islanda, fallirono. Unica soluzione fu quella di ri-nazionalizzarle e quindi assumersene il debito (a tal proposito, lo scrittore islandese Einar Már Gudmundsson sostenne che “gli utili sono stati privatizzati ma le perdite sono state nazionalizzate”). Questo processo portò all’inevitabile svalutazione della moneta nazionale rispetto all’euro (- 85%), e l’Islanda fu costretta a dichiarare banca rotta.
Il FMI (Fondo Monetario Internazionale), concesse un prestito di circa 2 miliardi di euro, a cui si aggiunsero ulteriori 2 miliardi stanziati da altre Nazioni del nord Europa. Per garantire il rientro dei capitali, FMI e UE fecero pressioni sul governo islandese affinché attuasse ciò che si vede già all’opera in altri Stati: chiedere sacrifici ai cittadini. Per 15 anni gli islandesi avrebbero dovuto pagare il debito al tasso di interesse del 5,5%, per un totale di oltre 3 miliardi e mezzo di euro.
A questo punto della storia, dove abbiamo visto in scena solo Stati e grandi Enti, entrano in scena i cittadini. Il loro ragionamento suona semplice, logico e lineare: “Perché dobbiamo pagare noi il debito di un privato contratto con un altro privato?”
Seguirono giorni di violente proteste di piazza a Reykjavík che portarono alle dimissioni del governo conservatore di Geir Haarde. Le elezioni furono vinte dallo schieramento di sinistra che, tuttavia, cedette subito alle pressioni straniere, soprattutto di Inghilterra e Olanda. Queste, infatti, si erano già fatte carico del debito dei loro cittadini e premevano per una risoluzione drastica a danno della popolazione islandese.
Ad opporsi fu il capo di Stato Grimsson, rifiutandosi di ratificare la decisione del governo di spalmare il debito sui cittadini e indisse un referendum. Inghilterra e Olanda "minacciarono" (è il termine esatto) il governo islandese, paventando la possibilità di ritorsioni tra cui, non ultimo, l’embargo, e ventilando la possibilità di trasformare l’Islanda nella “Cuba del Nord”. Intervennero a favore della linea dell’austerity (cioè del "sacrificio di tutti") anche FMI, BCE e UE.
Nulla da fare. Il 93% degli islandesi disse che il debito tra privati non era affare loro e si diedero inoltre una nuova costituzione tramite metodi di vera democrazia partecipativa, sfruttando ad esempio il crowdsourcing. Lo Stato Islandese aprì un processo contro i banchieri responsabili e l’Interpol  emise un mandato di arresto internazionale per l’ex presidente della banca Kaupthing.
Qualche giorno fa si è svolto il primo atto di un altro processo penale, questa volta a carico dell'ex primo ministro Geir Haarde, accusato di negligenza nella crisi finanziaria (rischia fino a 2 anni di carcere).
Oggi, le previsioni condotte dall’OCSE (dicembre 2011) sulla crescita del biennio 2012-2013, a fronte di una generale stagnazione o vera recessione, mettono un segno positivo del 2,4% proprio sull’Islanda.
Non bisogna tuttavia lasciarsi prendere dall’entusiasmo e pensare di poter applicare la ricetta islandese con l’Italia. È necessario tenere conto delle enormi differenze tra le due Nazioni: in Italia ci sono 60 milioni di persone a fronte delle 320 mila dell’Islanda. Il loro debito è “solo” di 4 miliardi, mentre quello made in Italy si aggira intorno ai 2mila miliardi.
Rimane un dato di fatto: la soluzione proposta da UE e BCE non è necessariamente l’unica via. Ne esistono altre. Mettere le mani nelle tasche dei cittadini non è il solo modo per salvare le economie mondiali. Ma, soprattutto, l’Islanda insegna che la popolazione può davvero fare qualcosa, basta che non dorma…

Alessandro Bardin

domenica 4 marzo 2012

Vogliamo la mamma? (Lettera Al ministro Anna Maria Cancellieri)

Gentile Ministro Cancellieri, 

sono un ragazzo italiano che da cinque mesi vive e lavora a Barcellona. Nonostante la distanza, continuo a seguire e ad informarmi sulle vicende del mio paese d’origine, e per questo non mi è sfuggita la Sua recente affermazione secondo cui i giovani oggi cercano un “posto fisso vicino a mamma”, seguita a stretto giro dalla critica del Presidente del Consiglio Monti alla monotonia del posto fisso.
All’inizio ho preso molto sul personale le Vostre affermazioni. Ricordare la mia esperienza, che dallo stage post-laurea a Roma mi ha portato all’espatrio dopo una frustrante e infruttuosa ricerca di lavoro, mi ha fatto pensare che magari Lei si riferisse all’imprescindibile vicinanza economica di mia madre. In effetti senza il suo aiuto difficilmente avrei potuto accettare la miseria che mi è stata offerta per lavorare per tre mesi nella Pubblica Amministrazione a 600 km da casa (125 euro in totale!). Poi mi sono ricordato che io almeno sono stato ospitato da alcuni familiari, mentre gli altri 600 neolaureati che hanno partecipato al medesimo progetto, a Roma o in una capitale straniera, hanno dovuto cercarsi e pagarsi un affitto con una retribuzione analoga o addirittura inferiore (molti hanno lavorato gratis). Quindi mi è venuto il sospetto che il desiderio di “cambiare aria”, che mi ha fatto accettare il trasferimento in un altro paese per un lavoro da 450 euro al mese, sia un sentimento comune a moltissimi dei miei coetanei.
In effetti i dati sulla mobilità dei giovani italiani stonano parecchio con le Sue affermazioni. Solo considerando l’università, il numero degli studenti italiani che trascorre un periodo medio di 7 mesi all’estero è passato dai 13 mila dell’anno accademico 2000/2001 ai 17 mila alla fine del decennio, con un aumento del 34%. A questi si aggiungono i circa 40 mila italiani che scelgono di effettuare integralmente all’estero i propri studi universitari. Sarà forse la conseguenza delle deficienze delle nostre università, che come mostra l’ultimo rapporto dell’OSCE escono letteralmente mortificate dal confronto con gli atenei dei paesi anglosassoni, nord europei, statunitensi ed ora persino indiani e cinesi, superiori per qualità dell’insegnamento e per gli importanti investimenti pubblici nella ricerca? Pare che da quelle parti pensino certe politiche rilancino la competitività e l’occupazione in periodo di crisi economica.
Anche dopo la discussione della tesi i numeri restano significativi. Dal 2000 al 2010 ogni anno circa 30 mila ragazzi hanno infatti scelto la via dell’emigrazione pochi mesi dopo la laurea. Si tratta di circa il 3% del totale, cifra che ha raggiunto il 4,5% nel corso del 2011. I dati e le interviste alle persone in questione mostrano che si tratta di giovani usciti dai rispettivi corsi di laurea con brillanti valutazioni, una alta preparazione e il desiderio di mettersi alla prova in realtà in cui il merito è maggiormente riconosciuto. Gli stessi numeri mostrano non solo che a parità di preparazione i giovani neolaureati europei riescono nel giro di qualche anno di lavoro e sacrificio a costruirsi una posizione adeguata al proprio titolo, come funzionari o quadri dirigenti, ma che gli stessi italiani, una volta abbandonato l’ingessato e gerontocratico belpaese, ottengono risultati analoghi se non addirittura migliori nel paese che li accoglie.
Non è dunque un caso il crescente interesse verso i programmi di mobilità europea, tra cui spicca la possibilità di effettuare stage e tirocini all’estero offerto dal Progetto Leonardo; così come non è casuale il grande successo degli strumenti di divulgazione di questa e altre opportunità. Da realtà istituzionali e transnazionali come il portale Eures, che promuove la mobilità internazionale di tutti i cittadini dell’Unione Europea, si arriva ai portali creati dagli stessi ragazzi italiani, che hanno colto l’esigenza dei propri coetanei di cercare nuovi stimoli lontano da casa ed hanno creato siti come “Il Portale dei Giovani di Prato” e “Scambi Europei” (solo per fare due esempi). Ogni giorno sono migliaia i contatti che leggono e inviano le proprie candidature per i progetti di studio, lavoro e scambio all’estero lì pubblicati.
Mi piacerebbe concludere con un piccolo ma significativo esempio di cui sono stato testimone, e che forse più dei numeri rende l’idea dell’erroneità della Sua affermazione, Signor Ministro. Negli stessi giorni in cui Lei ci ricordava di essere un popolo di giovani bamboccioni, ho vinto un concorso per un tirocinio nelle istituzioni europee (vado ancora più lontano dalla mia mamma), e si è creato il problema di sostituirmi nell’ufficio in cui lavoro a Barcellona. Su mio suggerimento, abbiamo messo l’annuncio proprio su uno dei portali di cui le parlavo sopra, e nonostante il mio scetticismo (mi chiedevo: “chi mai accetterà uno stage in cui si richiedono quattro lingue per 450 euro al mese?”), come aveva previsto il responsabile del sito il giorno dopo sono arrivati circa 400 curriculum. Lavorando in un piccolo ufficio, ho dato una mano a selezionare le candidature, e così ho letto una buona parte dei curriculum e delle appassionate lettere di motivazione di persone laureate con voti altissimi nei settori più disparati, con esperienze di studio e lavoro in diversi paesi europei e una invidiabile conoscenza delle lingue. Lo stupore è diventato rabbia quando ho pensato che profili del genere, che in altri paesi sarebbero già avviati a carriere e retribuzioni di ben altro livello, quasi implorassero la possibilità di essere messi alla prova per una cifra che certo non retribuisce il reale valore della prestazione, e che per quanto si possa risparmiare non permette certo di vivere all’estero senza il sostegno della propria famiglia. Ironia della sorte, la persona che è stata scelta è un italiano che sta studiando in Francia e che nel forum del sito ha criticato con forza chi ha commentato ironicamente la bassa retribuzione offerta, dicendo che aveva ragione ma che era troppo facile lamentarsi senza nemmeno provare ad avviare un cambiamento che passasse da un forte sacrificio personale.
Vista così, Signor Ministro, e a meno che non abbiamo tutti scoperto che i nostri padri hanno fatto qualche scappatella amorosa all’estero una ventina d’anni fa, mi sembra evidente che la tenacia, il coraggio e la forza di fare piccoli e grandi sacrifici per seguire i nostri sogni, o almeno cercare un futuro migliore, non ci mancano. Fosse che invece che ai giovani, i problemi italiani siano legati ad altre, ben più gravi, questioni "tecniche"?

Carlo Marcotulli