lunedì 12 marzo 2012

La via per uscire dalla crisi: una ricetta dall’Islanda

A furia di ripetercelo, anche noi ci siamo convinti che in una situazione di crisi generale (e mondiale) la cosa più giusta da fare è seguire la via dell’austerity greca, cioé spalmare il debito sulla popolazione, allungare la manina nelle tasche della gente che, a conti fatti, non ha neanche ben capito da dove arrivi questa crisi.
Quello dell’Islanda potrebbe essere un buon esempio per mostrare come le cose non stanno necessariamente come si dice. Peccato che i telegiornali e i principali quotidiani non ne abbiano praticamente parlato. Ecco allora in breve la storia.
L’Islanda, come molti paese europei, è uscita da un lungo periodo di crescita economica (durato 15 anni) che l’aveva portata ad essere tra le nazioni più ricche al mondo. Seguendo fedelmente un modello economico di “neoliberalismo puro”, nel 2001 prese il via un processo di privatizzazione delle banche. Queste, per attirare investimenti stranieri, puntarono su un programma denominato IcsSave che prevedeva conti online con cui era possibile abbassare i costi di gestione e aumentare i tassi di interesse.
A farsi attirare da questo sistema furono soprattutto i “vicini” inglesi e olandesi. Se in principio questo sistema portò a un generale aumento del capitale, sul lungo periodo provocò anche un aumento del debito estero che nel 2007 raggiunse una cifra pari al 900% del PIL nazionale. La crisi dei mutui subprime (2008) coinvolse anche le banche islandesi, facendo precipitare la situazione; Landbanki, Kapthing e Glitnir, le tre maggiori banche dell’Islanda, fallirono. Unica soluzione fu quella di ri-nazionalizzarle e quindi assumersene il debito (a tal proposito, lo scrittore islandese Einar Már Gudmundsson sostenne che “gli utili sono stati privatizzati ma le perdite sono state nazionalizzate”). Questo processo portò all’inevitabile svalutazione della moneta nazionale rispetto all’euro (- 85%), e l’Islanda fu costretta a dichiarare banca rotta.
Il FMI (Fondo Monetario Internazionale), concesse un prestito di circa 2 miliardi di euro, a cui si aggiunsero ulteriori 2 miliardi stanziati da altre Nazioni del nord Europa. Per garantire il rientro dei capitali, FMI e UE fecero pressioni sul governo islandese affinché attuasse ciò che si vede già all’opera in altri Stati: chiedere sacrifici ai cittadini. Per 15 anni gli islandesi avrebbero dovuto pagare il debito al tasso di interesse del 5,5%, per un totale di oltre 3 miliardi e mezzo di euro.
A questo punto della storia, dove abbiamo visto in scena solo Stati e grandi Enti, entrano in scena i cittadini. Il loro ragionamento suona semplice, logico e lineare: “Perché dobbiamo pagare noi il debito di un privato contratto con un altro privato?”
Seguirono giorni di violente proteste di piazza a Reykjavík che portarono alle dimissioni del governo conservatore di Geir Haarde. Le elezioni furono vinte dallo schieramento di sinistra che, tuttavia, cedette subito alle pressioni straniere, soprattutto di Inghilterra e Olanda. Queste, infatti, si erano già fatte carico del debito dei loro cittadini e premevano per una risoluzione drastica a danno della popolazione islandese.
Ad opporsi fu il capo di Stato Grimsson, rifiutandosi di ratificare la decisione del governo di spalmare il debito sui cittadini e indisse un referendum. Inghilterra e Olanda "minacciarono" (è il termine esatto) il governo islandese, paventando la possibilità di ritorsioni tra cui, non ultimo, l’embargo, e ventilando la possibilità di trasformare l’Islanda nella “Cuba del Nord”. Intervennero a favore della linea dell’austerity (cioè del "sacrificio di tutti") anche FMI, BCE e UE.
Nulla da fare. Il 93% degli islandesi disse che il debito tra privati non era affare loro e si diedero inoltre una nuova costituzione tramite metodi di vera democrazia partecipativa, sfruttando ad esempio il crowdsourcing. Lo Stato Islandese aprì un processo contro i banchieri responsabili e l’Interpol  emise un mandato di arresto internazionale per l’ex presidente della banca Kaupthing.
Qualche giorno fa si è svolto il primo atto di un altro processo penale, questa volta a carico dell'ex primo ministro Geir Haarde, accusato di negligenza nella crisi finanziaria (rischia fino a 2 anni di carcere).
Oggi, le previsioni condotte dall’OCSE (dicembre 2011) sulla crescita del biennio 2012-2013, a fronte di una generale stagnazione o vera recessione, mettono un segno positivo del 2,4% proprio sull’Islanda.
Non bisogna tuttavia lasciarsi prendere dall’entusiasmo e pensare di poter applicare la ricetta islandese con l’Italia. È necessario tenere conto delle enormi differenze tra le due Nazioni: in Italia ci sono 60 milioni di persone a fronte delle 320 mila dell’Islanda. Il loro debito è “solo” di 4 miliardi, mentre quello made in Italy si aggira intorno ai 2mila miliardi.
Rimane un dato di fatto: la soluzione proposta da UE e BCE non è necessariamente l’unica via. Ne esistono altre. Mettere le mani nelle tasche dei cittadini non è il solo modo per salvare le economie mondiali. Ma, soprattutto, l’Islanda insegna che la popolazione può davvero fare qualcosa, basta che non dorma…

Alessandro Bardin

Nessun commento:

Posta un commento